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Storie di chi ha combattuto il coronavirus, Elisa e il dolore invisibile degli infermieri del Borea di Sanremo

«Non mi sento un’eroina, ho solo svolto il mio lavoro guidata dalla passione e dall’amore per i pazienti. Certo, avevo paura ma c’erano delle vite da salvare»

Sanremo. «Non mi sento un’eroina, ho solo svolto il mio lavoro guidata dalla passione e dall’amore per i pazienti. Certo, avevo paura ma c’erano delle vite da salvare». Elisa Ponzo, 33 anni, infermiera del reparto di Malattie infettive dell’ospedale di Sanremo, ha una forza straordinaria. Mentre ripercorre i giorni più bui dell’emergenza sanitaria ha i pugni chiusi, stretti sui pantaloni come se l’oggetto del suo racconto fosse lì, in mezzo a noi, e lei volesse difendersi.

«È stata molto dura – racconta l’ospite di Mattino24 –, da un giorno all’altro mi sono ritrovata buttata in un reparto nuovo. All’improvviso il lavoro è cambiato completamente. Per me, come per tanti altri colleghi, è stato uno shock. Senza rendercene conto ci siamo trovati in un vortice di turni infiniti, costretti a indossare dispositivi di sicurezza pesanti che causavano mal di testa, cicatrici, abrasioni delle mani e del volto».

Vere e proprie ferite che una sera di aprile, dopo il consueto giro di somministrazione delle terapie nelle stanze covid-19, l’infermiera fotografa con il suo cellulare. «Ho scattato una foto per vedere il mio volto e senza alcuna pretesa l’ho pubblicata sui social». Quella foto ha fatto il giro del web, tanto da arrivare sul profilo del ministro degli esteri Di Maio che l’ha ricondivisa definendo Elisa e suoi colleghi degli «eroi». Elisa però non vuole essere chiamata eroina, la retorica degli eroi lasciamola ai cartoni animati. Elisa vuole solo liberarsi di quel dolore che nasconde, delle immagini che ha visto: «Un ricambio allucinante di pazienti, soprattutto anziani, attaccati agli erogatori di ossigeno e poi a dispositivi sempre più avanzanti, a partire dalla maschera di ventura. La maggior parte finiva intubata in rianimazione. Ci sono stati molti decessi, spesso ero io a comunicare ai familiari la notizia ed era straziante».

«Sia a livello fisico che emotivo è stato pesante – sottolinea –. Non nego che avevo molta paura. Nessuno conosceva questo virus, non sapevamo se era davvero così contagioso come dicevano. Allo stesso tempo provavo un profondo senso di tenerezza nei confronti dei pazienti, malati, in fin di vita, segregati nelle loro stanze senza ricevere visite, con noi vestiti da palombari che li accudivamo per quanto fosse possibile. È stata una grande prova».

Anche a casa, dove l’infermiera non sa come proteggere i suoi figli. Per giorni si è sentita in un limbo, soprattutto quando le hanno comunicato che un suo collega è stato contagiato, il primo dei sei casi registrati all’Asl 1. «Non sapevo se tornare a casa dalla mia famiglia o se allontanarmi. Se da un lato mi confortava sapere che il virus non era particolarmente pericoloso sui bambini, dall’altro c’erano sempre l’incognita: “Posso contagiarli?”, “Posso abbracciarli, coccolarli?”». Lei però non riesce ad applicare i protocolli di distanziamento fra le mura domestiche né tantomeno ha intenzione di trasferirsi temporaneamente in albergo. E ogni sera, lasciato alle spalle il Borea con i suoi spettri, torna dalla sua famiglia. «Discorso diverso, invece, con mia madre, malata oncologica, nei confronti della quale ho sempre adottato tutte le precauzioni necessarie. E ancora adesso non la tocco e non la bacio».

Elisa si porta dentro un dolore invisibile, dietro i suoi occhi scuri e fermi nasconde quella fragilità con cui lei e tutti coloro che hanno combattuto il coronavirus in prima linea, in questi mesi hanno dovuto convivere. Uno strano senso di impotenza, di fronte al quale spesso si è sentita abbandonata. «Le istituzioni sono state poco vicine alla mia categoria – dice –. Si parlava di bonus da erogare in nostro favore ma questi bonus sono stati congelati».

Lei però non ha rabbia nei confronti di nessuno, non accusa politici o politicanti. E mi confida: «La sera quando vado a dormire penso a quanto sono stata fortunata e sono fiera di essere riuscita proteggere me stessa e la mia famiglia. Più volte ho creduto di cedere ma ce l’ho fatta. Ora spero solo che se in autunno arrivi la seconda ondata di contagi questa non sia così aggressiva come la prima». Qualunque cosa accadrà, Elisa, di sicuro, si farà trovare pronta.

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