La storia di Pietrabruna nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

Abitato fin dall’età preistorica, poi devastato dalle orde dei Saraceni e dominato per lungo tempo dai marchesi di Clavesana
Pietrabruna. Nuovo appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo che questa volta propone la storia di Pietrabruna, abitato fin dall’età preistorica, poi devastato dalle orde dei Saraceni e dominato per lungo tempo dai marchesi di Clavesana.
Il territorio comunale di Pietrabruna, esteso per 995 ettari, occupa con le sue due frazioni di Boscomare e Torre Paponi i punti più prominenti della valle del torrente di San Lorenzo e del suo ramo sorgentizio di Ca’ Sottane in vista dei pascoli del Monte Follia, alto 1033 metri, e del Monte Faudo (1149 metri). Nel fondovalle Torre Paponi sorge alla confluenza dei due rii che formano il torrente e si presenta diviso in due nuclei abitati di fondazione secentesca, mentre la più antica borgata di Boscomare, che si raggiunge da una valletta secondaria aperta sulla sinistra, è arroccata su un’altura rocciosa ed è protetta a sud dal Monte Pian delle Vigne, che si eleva all’altezza di 538 metri, con l’abitato di Pietrabruna e i rilievi del Faudo a settentrione.
Il comprensorio municipale di Pietrabruna occupa quindi buona parte del bacino idrografico del rio di San Lorenzo e presenta confini ben delimitati geograficamente con i vari contrafforti montuosi che fanno da spartiacque. Il fascio di vallecole ospitanti i tre centri abitati che costituiscono l’attuale Comune rappresenta un’area peculiare sia per le forme particolarmente dolci del paesaggio sia per la folta presenza di secolari uliveti.
Compreso tra il Mar Ligure e i contrafforti del Monte Faudo che scendono verso sud-est e verso sud, il territorio pietrabrunese ha una sua ben precisa unità fisica e risulta delimitato a nord-est dalla valle del torrente Prino e a sud-ovest dalle piccole vallette comprese tra Castellaro e Costarainera. I modesti corsi d’acqua che scendono ad alimentare il rio San Lorenzo, tra cui il rio Merea ed il vallone Avrighi, sono disposti a ventaglio e incidono un terreno omogeneo dal punto di vista petrografico, essendo costituito da rocce sedimentarie di tipo flyscioide risalenti al secondo periodo (Eocene) dell’era cenozoica.
L’abitato di Pietrabruna, che anticamente doveva sorgere probabilmente più in basso nei pressi dell’area cimiteriale, si conserva all’interno quasi integro con le strade recentemente ripavimentate ora con percorsi ammattonati ora con cemento e ora con piastrelle di varia forma e colore, mentre le parti periferiche hanno visto sorgere negli ultimi decenni numerosi edifici nuovi, che hanno contribuito a modificare la caratteristica fisionomia del borgo medievale.
Il piccolo villaggio di Torre Paponi è ancor oggi ben conservato e presenta una serie di suggestivi carruggi recentemente ripristinati nella pavimentazione in mattoni, mentre l’abitato si compone di due parti contigue, strutturate in modo diverso, con maglia urbana abbastanza regolare e cellule edilizie similari aggregate in schiera secondo le curve di livello lungo stradine pianeggianti che si dipartono a quote diverse; la maglia viaria del borgo si conclude quindi nella parte alta ove si aprono spazi urbani più ampi di epoca secentesca formatisi in concomitanza con la costruzione della chiesa.
L’altra frazione, Boscomare, è invece di origine più antica in quanto sorge su uno sperone sottostante ad una torre quattrocentesca e si presenta come un compatto centro rurale che conserva i caratteri dell’edilizia concentrata su un’area relativamente ristretta mantenendo un quasi perfetto equilibrio fra i valori architettonici urbani e l’ambiente naturale circostante. Il toponimo è attestato nel XII secolo come Petra bruna e poi nel secolo seguente come Preabruna, da cui, per abbreviazione e dissimilazione della r, deriva la dizione locale di Prebüna.
Il termine Petra, al pari della località di Pietra Ligure, potrebbe indicare, oltreché il materiale pietroso che si estrae in loco, anche l’esistenza di una posizione fortificata per scopi difensivi, mentre l’epiteto bruna si riferisce senza dubbio al colore della pietra, forse con implicita allusione proprio al colore scuro della pietra con cui sono state erette le case del borgo medievale.
La frequentazione del territorio pietrabrunese è documentata fin dall’età preistorica dalla presenza di castellari liguri sulla vetta dei monti Sette Fontane e Follia, sovrastanti gli abitati di Boscomare e Pietrabruna. Gli uomini che abitarono i nuclei agropastorali di crinale dall’età del Bronzo si trasferirono quindi, nel periodo della dominazione romana, nelle ville e sui più ospitali poggi di mezzacosta ponendo così le basi degli insediamenti medievali, mentre i pascoli sommitali, molto vicini ai primitivi nuclei abitati, sarebbero rimasti in comune alle nuove comunità della valle fino ai secoli bassomedievali.
Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la zona dell’odierna Pietrabruna fu teatro delle scorrerie dei Vandali, passando successivamente sotto il dominio dei Bizantini e poi dei Longobardi, che conquistarono la Riviera di Ponente nel 643. Alla fine dell’VIII secolo Pietrabruna e tutta la Liguria occidentale furono conquistate dai Franchi, che attuarono una vasta riorganizzazione amministrativa del territorio.
Nel corso del X secolo il borgo venne ripetutamente assaltato e saccheggiato dai Saraceni inducendo con ogni probabilità gli abitanti della fascia costiera a costruire un nuovo paese nell’interno in posizione più elevata e protetta da eventuali incursioni provenienti dal mare. Nel 950, quando non si era ancora attenuata la minaccia rappresentata dagli attacchi saraceni, il re d’Italia Berengario II suddivise il suo regno in marche e in comitati, cosicché il territorio pietrabrunese venne sottoposto al marchese Arduino e inserito nel Comitato di Albenga. Una volta debellata definitivamente la minaccia saracena, i marchesi arduinici si impegnarono a ripopolare i territori abbandonati ricercando l’appoggio politico, amministrativo ed economico delle nuove fondazioni monastiche, risorte nel corso della rinascita religiosa dell’XI secolo, alle quali vennero infeudate grandi porzioni del territorio ligure e piemontese affinché le rendessero maggiormente produttive attraverso lo stanziamento di coloni destinati alla coltivazione delle terre
. Fu così che tra il 1028 e il 1064 una parte del territorio di Porto Maurizio venne sottoposta in parte al monastero femminile delle Benedettine di Caramagna in Piemonte e in parte al monastero dei Benedettini dell’isola Gallinaria, anche se tali donazioni rimanevano ancora sotto la giurisdizione formale della contessa Adelaide di Susa. Alla sua morte, nel 1091, tutti i suoi possedimenti passarono ai marchesi di Clavesana, eredi della defunta Adelaide, i quali acquisirono così i diritti pure sul territorio di Pietrabruna e dei paesi limitrofi.
Il 17 maggio 1103 il vescovo di Albenga Aldeberto, sfruttando abilmente il vuoto di potere creatosi in seguito all’estinzione degli Arduinici, decise di rafforzare le sue proprietà nel territorio portorino affittando per due solidi annui al monastero di Lérins la gestione religiosa e temporale di cinque chiese situate nella curia del Prino, tra le quali anche quella di San Gregorio di Pietrabruna, anche se non si trattò di una vera e propria investitura feudale che comportasse la giurisdizione civile su quel territorio, che di fatto non apparteneva al vescovo di Albenga ma era ormai sotto il pieno controllo politico e amministrativo dei marchesi di Clavesana. Cinquant’anni dopo anche il paese di Boscomare comparve nell’atto notarile del 13 maggio 1153, con il quale il vescovo di Albenga Odoardo infeudò Anselmo de Quadraginta della riscossione delle decime che gli abitanti del territorio portorino dovevano alla Curia vescovile ingauna.
Nel 1162 i marchesi di Clavesana vendettero quindi Pietrabruna ai signori della Lengueglia, che pochi anni dopo la cedettero al comune di Porto Maurizio, che acquistò il territorio pietrabrunese allo scopo di garantirsi sicuri confini a ponente, poi confermati dall’alleanza stipulata con i Lengueglia nel 1254, mentre Pietrabruna e il suo comprensorio venivano inclusi dalle autorità portorine nel Terziere di Dolcedo.
ùNegli ultimi decenni del XII secolo si andava intanto profilando una sempre maggiore ingerenza negli affari interni dell’estremo Ponente ligure da parte della Repubblica di Genova, che ottenne un implicito riconoscimento di tale linea politica con il trattato concluso nel 1162 con l’imperatore Federico Barbarossa, che infeudò alla Serenissima tutte le città del litorale ligure, pur nel rispetto dei diritti già esercitati sui vari paesi dai signori feudali locali.
In tale periodo la politica genovese si limitò ad interventi mirati all’interno delle singole giurisdizioni per ottenerne il massimo vantaggio possibile in termini di controllo economico e sociale, come quando nel 1169 Genova intervenne a sostegno dei marchesi di Clavesana per costringere Porto Maurizio al pagamento del fodro annuo. Verso la fine del secolo la comunità di Porto Maurizio fu costretta a stipulare nel 1199 e nel 1200 delle «convenzioni» con Genova, la quale poté così estendere il suo dominio sulla Riviera tramite il controllo assoluto del monopolio commerciale e la facoltà di attuare leve militari nel Ponente, anche se le singole comunità portorine, e tra queste figurava anche quella di Pietrabruna, erano lasciate libere di governarsi secondo le proprie leggi. Nel corso del XII secolo si era intanto pervenuti all’unione dei tre terzieri presenti sul territorio portorino che andarono a costituire la nuova «Magnifica Comunità di Porto Maurizio», nella cui giurisdizione entrò a far parte anche Pietrabruna nell’ambito del Terziere di San Giorgio.
La lunga lotta del libero comune di Porto Maurizio contro i marchesi di Clavesana e il Comune di Genova per conseguire la completa autonomia politica e amministrativa passò attraverso le minacce di guerra contro i Portorini da parte dei Genovesi nel 1184, la succitata convenzione con Genova del 24 gennaio 1200, la rivolta antifeudale del 1204 e infine la vendita al Comune di Genova, il 1° giugno 1228, degli ultimi diritti feudali goduti dai Clavesana su Porto Maurizio, sulla sua corte e sui terzieri limitrofi di Torrazza e Dolcedo con il simultaneo scioglimento dal giuramento di fedeltà ai marchesi di tutti gli abitanti di questi paesi che avvenne con una solenne cerimonia tenutasi nella parrocchiale portorina sulla sommità del castello marchionale.
Tali avvenimenti ebbero come conseguenza il graduale passaggio di Pietrabruna e, più in generale, dell’intera comunità di Porto Maurizio, nell’orbita della dominazione genovese al pari di molte altre località limitrofe della Liguria occidentale. Verso la fine del XII secolo le autorità portorine decisero di demolire le vecchie fortificazioni del paese in quanto la comunità di Porto Maurizio non amava particolarmente la presenza di città murate e fortificate nei suoi domini non solo perché rappresentavano un ingombrante e anacronistico residuato del periodo feudale, ma anche perché potevano costituire una pericolosa minaccia per il comune nel caso queste ultime fossero cadute in mano nemica.
Dai primi del Duecento, nel governo della communitas di Porto Maurizio, era frattanto subentrato ai consoli un podestà forestiero, il quale era coadiuvato da otto anziani, sempre però ripartiti nella formula 4/2/2 tra i terzieri di San Maurizio, San Giorgio e San Tommaso. Tale radicale innovazione, che costituisce tra l’altro un evidente sintomo della sempre maggiore intromissione politica del governo genovese nei centri rivieraschi, provocò gravi dissidi tra i terzieri, che risolsero le reciproche vertenze con una serie di compromessi, che non furono tuttavia ritenuti soddisfacenti dai terzieri di San Giorgio e di San Tommaso.
Nei decenni successivi proseguirono i tentativi di rivolta dei Portorini nei confronti della Repubblica di Genova, la quale, con i patti dell’8 marzo 1241, aveva imposto al comune di Porto Maurizio lo status di città «convenzionata» con Genova, che tuttavia lasciava alla comunità locale una certa autonomia amministrativa. Nel frattempo le istituzioni portorine si erano evolute in sintonia con quelle genovesi: il governo della comunità era infatti passato nelle mani di un podestà genovese, che era coadiuvato da consiglieri e anziani eletti in modo proporzionale tra i rispettivi terzieri, che tuttavia dovevano sottostare alle decisioni della ristretta classe politica concentrata nel castello di Porto Maurizio, che lasciava ben poca autonomia ai terzieri e ancor meno alle ville del contado, tra i quali vi era pure la piccola comunità di Pietrabruna.
Al tempo dei podestà, il Consiglio della comunità era affiancato dal Parlamento generale, che si radunava tre volte all’anno sui sagrati delle chiese dei tre terzieri, mentre i consigli dei capifamiglia delle singole ville, compresa quella di Pietrabruna, erano convocati solo quando sorgevano questioni che interessavano un paese del terziere su un tema di particolare rilevanza come la costruzione di un oratorio, di una torre e di una fontana.
La manutenzione delle strade era invece codificata espressamente nelle norme statutarie della comunità di Porto Maurizio, riformate nel 1397, in base alle quali erano indicati con precisione i tratti viari che gli uomini di ogni villa dovevano mantenere in perfetta efficienza, cosicché la via che portava da Civezza a Pietrabruna doveva essere riattata dagli uomini di Civezza fino alla rocca Riente, presso il fossato e i prati dei Cravi e la terra dei Bertoloti, mentre la strada che conduceva dalla colla verso il bosco doveva essere riattata dagli abitanti del borgo di Santa Maria, di Poggio Lanteri, di Torrazza e di Civezza dal torrente Prino fino ai confini del Terziere di Dolcedo.
Il borgo, dunque, al pari delle altre ville del comprensorio, prendeva parte attivamente, secondo il suo turno e i poteri di sua competenza, all’amministrazione della comunità di Porto Maurizio attraverso il suo eventuale consigliere o anziano presente tra i delegati del Terziere di Dolcedo partecipando alla gestione dello stesso terziere tramite propri delegati che potevano pure assumere specifichi incarichi amministrativi e operativi; era stato infatti deciso che tutte le ville del terziere, compresa quindi anche Pietrabruna, godessero del diritto di avere un cambio periodico nella rappresentanza del consiglio con entrata in carica a rotazione di due anziani per ogni terziere.
Nel corso dei secoli tardomedievali si era intanto formato il villaggio di Boscomare, che fece parte delle proprietà dell’arcivescovo di Genova nella zona di Taggia, come si evince anche dall’intitolazione della primitiva chiesa del borgo a San Siro, vescovo genovese vissuto nel IX secolo, mentre l’altra frazione di Pietrabruna, Torre Paponi, si andò gradualmente formando a partire dal XVII secolo su un sito alla confluenza dei due rii che si immettono nel torrente San Lorenzo.
Durante il XVI secolo la popolazione di Pietrabruna dovette affrontare, al pari di tutte le altre località limitrofe, il grave pericolo rappresentato dai corsari barbareschi, che dalle basi nordafricane raggiungevano la costa ligure seminando morte, distruzione e terrore. Di fronte a questa gravissima minaccia, Pietrabruna, come del resto tutti gli altri centri del Ponente ligure, si trovò sostanzialmente impreparata, tanto che la costruzione delle prime torri destinate all’avvistamento delle flotte turche, furono costruite in un lasso di tempo successivo al 1560, cioè dopo che i Barbareschi avevano compiuto le prime feroci incursioni sulle coste della Liguria occidentale.
Peraltro già dal luglio del 1537 gli abitanti di Pietrabruna e delle altre ville del comprensorio portorino erano stati presi da un timore collettivo di un attacco massiccio di corsari barbareschi, dopo uno sbarco inatteso di questi ultimi nei pressi della Foce, oltre al fatto che lo specchio di mare tra Riva e San Lorenzo era stato individuato dai pirati come zona franca, ossia priva di qualsiasi rischio, dove i barbareschi potevano sbarcare tranquillamente e anche rimanervi più giorni in attesa di ripartire per compiere nuove scorrerie. Dopo aver saccheggiato violentemente Riva e San Lorenzo, i corsari barbareschi, guidati dal rinnegato calabrese Luca Galeni, meglio noto come Occhialì, raggiunsero i paesi di Lingueglietta, Civezza e Cipressa, che vennero selvaggiamente devastate.
La stessa triste sorte sarebbe toccata anche a Pietrabruna ai primi di giugno del 1564, quando Occhialì e i suoi uomini, poco prima di saccheggiare brutalmente Civezza, Torrazza e Piani e distruggere il borgo di Montalto di Caramagna, si accanirono contro il borgo di Pietrabruna e i suoi abitanti con inaudita ferocia e cieca violenza, catturando anche molte persone inermi, delle quali molte sarebbero riuscite a farsi riscattare, mentre i meno fortunati finirono schiavi, incarcerati o «convertiti» forzatamente alla religione islamica. Intanto continuavano ad essere sempre critici i rapporti tra le ville dei terzieri e la comunità di Porto Maurizio, che, dopo lunghe pressioni, concesse nel 1613 l’autonomia al Comune di Pietrabruna, pur restando la comunità locale ancora formalmente sotto il controllo del podestà portorino e successivamente, a partire dal 1646, del capitano di Porto Maurizio, mentre veniva concordato che, per quanto concerneva le materie civili, si sarebbe continuato ad osservare le norme previste dallo statuto del capoluogo.
In merito invece al funzionamento e all’amministrazione del terziere, nel 1620 venne emanata una serie di norme procedurali particolari e dettagliate, che venivano lette annualmente in occasione dell’insediamento ufficiale di ogni nuova amministrazione e quindi trascritte nel relativo «Libro del Terziere». Le varie funzioni amministrative erano svolte da un priore, due anziani, quattro consiglieri, quattro estimatori di canella, sei ministrali, due ufficiali dei boschi, due capitani di guerra, sei estimatori di danni, cinque ufficiali delle strade, un curatore di assenti, un cassiere e tre giudici delle differenze secondo quanto previsto dalla normativa degli Statuti di Porto Maurizio.
Nel corso dell’età moderna Pietrabruna si era intanto ingrandita grazie anche al graduale estendersi della coltivazione dell’ulivo e della commercializzazione dell’olio di oliva, incrementata dalla sempre più massiccia richiesta di olio a partire dalla fine del Cinquecento. La produzione e il commercio oleario si avvantaggiarono inoltre da alcune fortunate circostanze quali l’improvvisa apertura del mercato francese, che era stato gravemente danneggiato dalla rovinosa gelata del 1709 o la possibilità di applicare su larga scala un nuovo e rivoluzionario sistema di lavorazione delle sanse, che era stato introdotto a Dolcedo nel 1717 da Pietro Vincenzo Mela, consentendo ai produttori di olio del territorio pietrabrunese di incrementare il commercio oleario sfruttando anche lo scalo di Porto Maurizio per conquistare nuovi spazi di mercato esportando il prodotto su numerosi bastimenti stranieri, tra cui quelli francesi, olandesi, inglesi e toscani.
Dopo la nascita della Repubblica Ligure nel 1797, Pietrabruna passò prima sotto la Giurisdizione degli Ulivi con capoluogo Porto Maurizio e poi, a partire dal 1803, sotto Oneglia, mentre negli anni di annessione all’Impero francese dal 1805 al 1814 venne sottoposta al circondario di Porto Maurizio, elevato a Sottoprefettura nell’ambito del Dipartimento di Montenotte con assegnazione al cantone di Santo Stefano. Nel 1815, in seguito all’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, Pietrabruna entrò a far parte del mandamento di Porto Maurizio nella provincia di Oneglia sotto l’amministrazione della Divisione delle Alpi Marittime con capoluogo Nizza, dopo la cui cessione alla Francia nel marzo 1860, Pietrabruna venne aggregata alla nuova provincia di Porto Maurizio.
Ventisette anni dopo il paese subì alcuni danni a causa del terremoto del 23 febbraio 1887, per cui quattro abitanti di Boscomare (che era allora Comune autonomo) ottennero un mutuo statale di 10.600 lire, mentre venti Pietrabrunesi ne ottennero uno pari a 24.450 lire. Il governo concesse inoltre al Comune di Pietrabruna 8500 lire per la riparazione di edifici comunali, ospedali, ricoveri, ospizi, chiese, oratori, case canoniche e sedi di Confraternite risultati danneggiati dal sisma. Dopo l’Unità d’Italia risorsero antiche rivendicazioni autonomistiche tra i vari paesi della valle del San Lorenzo, come quando, il 22 agosto 1895, la maggioranza degli elettori di Torre Paponi avanzò un’istanza al Comune di Civezza in cui chiedeva di staccarsi dal Comune di Boscomare per essere unita a quello di Civezza, ma le condizioni poste dai consiglieri civezzini bloccarono di fatto la pratica.
Dopo gli anni della prima guerra mondiale, durante la quale caddero non pochi Pietrabrunesi, con l’avvento del regime fascista si pervenne all’unione di Pietrabruna, Boscomare e Torre Paponi nel nuovo Comune di Pietrabruna, che riunì così in un’unica entità amministrativa i tre centri principali dell’alta valle del San Lorenzo. Nel corso della successiva guerra di Liberazione il paese dovette pagare un altissimo tributo di sangue alla causa della lotta antifascista con la rappresaglia attuata a Torre Paponi dai nazifascisti. A Pietrabruna compirono tuttavia soltanto rare puntate alcuni brigatisti nella primavera del 1944 e poi i Tedeschi nell’inverno 1944-45, mentre ai primi di giugno del ’44 un gruppo di partigiani appartenenti alla formazione di Angelo Perrone aveva disarmato in paese due militi fascisti, ai quali sarebbe stata poi concessa la vita per espresso desiderio della popolazione ed aveva distribuito agli abitanti 150 carte annonarie e aveva distrutto l’ufficio accertamenti agricoli, le liste di leva e tutto quanto avrebbe potuto indirizzare i fascisti al forzato reclutamento dei giovani.
Il 21 giugno successivo un’altra pattuglia, appartenente all’8° distaccamento «Stella», asportò dalle polveriere di Pietrabruna quattordici casse di munizioni per mitraglia pesante; tre mesi dopo sette garibaldini in missione a Pietrabruna verso la metà di settembre del ’44 catturarono e disarmarono quattro bersaglieri repubblichini recuperando un mitra, due fucili tedeschi e cinque bombe a mano, mentre in quegli stessi giorni altri scontri a fuoco si verificavano nei prati di San Salvatore all’altezza di Boscomare.
Nei mesi della guerra partigiana furono anche costituiti i CLN dei tre paesi che formavano il Comune per collaborare più fattivamente all’attività delle formazioni partigiane: il CLN di Pietrabruna risultò quindi composto da Antonio Giordano in qualità di indipendente, Paolo Orengo per la DC e Giuseppe Pirero sempre come indipendente; quello di Boscomare venne formato da Angelo e Giobatta Fossati per il PSI e Paolo Osmanni per la DC; e infine quello di Torre Paponi, risultò costituito dagli indipendenti Gerolamo Amoretti, Marco Ascheri e Angelo Papone e dal comunista Andrea Ascheri. Proprio a Torre Paponi si verificò l’episodio più grave dell’intero periodo di occupazione della valle del San Lorenzo: oltre ottocento uomini tra Tedeschi e fascisti il 16 dicembre 1944 investirono l’abitato con una valanga di proiettili, sparando con artiglierie pesanti e leggere, con razzi e proiettili traccianti e azionando lanciafiamme e mortai che iniziarono la loro opera demolitrice seminando morte e terrore nella piccola frazione, dove i nazifascisti, al termine della strage, incendiarono le poche case rimaste, risparmiando soltanto gli edifici religiosi ma dando fuoco a tutte le altre case, compresi l’asilo, la scuola, i fienili e le stalle.
Dopo la fine della guerra e la lenta quanto laboriosa ricostruzione dei paesi più colpiti si è registrata una notevole ripresa, legata, oltre ai tradizionali settori produttivi, quali l’oleario e quello della distillazione della lavanda, a quelli della vite, da cui si produce prevalentemente il Vermentino, oltre al Sangiovese, al Trebbiano e al Rossese, mentre ha acquistato particolare rilevanza negli ultimi decenni la coltivazione dei fiori, soprattutto anemoni, e più recentemente delle piante per fronde verdi ornamentali. Di lieve entità sono invece le attività legate al settore turistico, data la scarsità delle strutture ricettive, pochi sono i modi di valorizzazione delle produzioni tipiche locali e non molte sono inoltre le abitazioni disponibili per le vacanze. Negli ultimi si è avuta peraltro una leggera inversione di tendenza nel comparto del turismo, tanto che sono aumentati i villeggianti che si recano a Pietrabruna per respirare l’ottima aria del posto, ossigenata dalla ricca vegetazione locale, o per gustare le specialità gastronomiche del paese, come la celebre «Stroscia di Pietrabruna», un prelibato dolce a base di farina, olio e zucchero che si produce solo nell’alta valle del San Lorenzo.