Omicidio a Ventimiglia, ecco perché quello di Pellegrino non fu un delitto di mafia

2 marzo 2023 | 16:30
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Omicidio a Ventimiglia, ecco perché quello di Pellegrino non fu un delitto di mafia

Le motivazioni che hanno portato in Appello a ridimensionare la condanna nei confronti del giovane omicida di Joseph Fedele

Ventimiglia. «Il sovrastamento della vittima da parte dell’assassino non è una modalità del tutto tipica degli omicidi consumati da appartenenti alla criminalità organizzata. In mancanza di altri connotati specifici, l’aggravante contestata non può essere ritenuta». A scriverlo, nero su bianco, è la Corte d’Assise d’Appello di Genova, presieduta dal giudice Annaleila Dello Preite, che ha ridimensionato (e in parte ribaltato) la condanna nei confronti di Domenico Pellegrino, 25 anni, per l’omicidio del pregiudicato 60enne italo-francese Joseph Fedele, commesso il 22 settembre del 2020, quando l’uomo sparì e i familiari ne denunciarono la scomparsa.

Con l’esclusione dell’aggravante mafiosa e la concessione delle attenuanti, Pellegrino (difeso dagli avvocati Luca Ritzu e Giorgio Vianello Accorretti), si è visto diminuire la condanna da 20 anni di carcere, come deciso nel primo grado di giudizio (con rito abbreviato), a 13 anni e 10 mesi.

Contro la sentenza di primo grado, pronunciata il 12 aprile 2022 dal gip del Tribunale di Genova Cinzia Perroni, i legali di fiducia di Domenico Pellegrino avevano ricorso in Appello, chiedendo l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso perché, si legge nelle carte, «sarebbe stato valorizzato indebitamente il contesto familiare mafioso di appartenenza dell’imputato e della vittima, sarebbero state mal interpretate le modalità esecutive di occultamento del corpo». Inoltre, gli avvocati avevano chiesto la concessione delle attenuanti generiche «perché l’imputato incensurato si è presentato spontaneamente ai carabinieri, ha ammesso i fatti rendendo dichiarazioni ampie e articolate, anche successivamente riconfermate e riscontrate».

Probabile omicidio Ventimiglia

La ricostruzione. La mattina del 23 dicembre 2020, giorno di emissione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Domenico Pellegrino, il giovane «si presentò spontaneamente ai carabinieri, dichiarando di essere l’autore dell’omicidio – scrivono i giudici – Si rese disponibile a recarsi nel luogo del delitto con gli inquirenti […] Riferì di aver conosciuto Fedele nel maggio 2020 in Francia, quando, parlando al telefono in calabrese, fu avvicinato dallo sconosciuto, che gli disse di essere anch’egli calabrese; i due iniziarono a parlare e la vittima manifestò l’intenzione di aprire un ristorante. Fedele disse di aver bisogno di denaro, per cui a luglio l’imputato gli propose di comprare la sua Mercedes al prezzo di 10.000 €; la vittima acconsentì e ricevette in contanti la metà della somma pattuita, senza rilasciare ricevuta, con la promessa della corresponsione della restante somma a dicembre».

Vittima e carnefice si incontrarono poi, secondo quanto ricostruito in base alle dichiarazioni di Pellegrino, nell’area di parcheggio della Metro di Bevera, il 22 settembre del 2020: il giorno dell’omicidio. «Fedele salì sul furgone condotto dall’altro; su sua indicazione l’imputato guidò fino alla zona Calvo – si legge nelle carte -. La vittima per prima rivendicò il saldo, ma Pellegrino rispose di non avere denaro e chiese la restituzione della somma di 5000 euro già corrisposta. Fedele si arrabbiò, tirò fuori dalla tasca una pistola per minacciarlo; Pellegrino frenò bruscamente; la vittima batté la mano contro il cambio facendo cadere l’arma che prontamente fu afferrata dall’imputato. Dopo una rapida colluttazione, il giovane, tenendo in mano la pistola con la sinistra, sparò due colpi alla testa a Fedele, nella parte superiore e posteriore della nuca, e lo vide morire sul colpo con perdita copiosa di sangue. Dopo un primo momento di shock, prese il cadavere, lo infilò dentro un tubo sotto la strada, lavò il furgone e gettò nel fiume i proiettili, l’arma, il telefono, una valigetta, una 24 ore e dei documenti. Poi si recò presso l’immobile di proprietà della sua famiglia sito in località Bevera per lavarsi dal sangue e cambiarsi i vestiti, che gettò pure nel fiume; andò dal cugino per chiedergli di accompagnarlo in Francia per trasportare la Mercedes. L’uomo acconsentì, ignorava l’omicidio».

Gli accertamenti balistici, svolti dal dottor Conti, consulente tecnico del pubblico ministero, hanno accertato che Fedele fu «attinto da tre proiettili blindati calibro 6,35 Browning, esplosi da una sola arma con canna solcata da sei righe destrorse della larghezza di 1 mm, la cui marca non può essere stabilita per carenza di bossoli». L’esatta dinamica non è mai stata chiarita. Ad esempio, specificano i giudici genovesi, «nessuna notizia è stata rinvenuta che consenta di ricostruire la distanza tra i due». E ancora: «E’ verosimile che l’ultimo colpo sia stato quello alla nuca. La conformazione circolare dei fori manifesta l’esplosione del corpo dall’alto o contro la vittima posizionata con capo fortemente flesso in avanti».

Accertamenti vennero compiuti anche sul furgone, dove il consulente della pubblica accusa non ha trovato tracce di sparo all’interno dell’abitacolo: «ciò potrebbe spiegarsi con un accurato lavaggio oppure varrebbe a smentire la tesi difensiva, secondo cui l’esplosione dei colpi sarebbe avvenuta all’interno del veicolo». Nel furgone, invece, sono state trovate «micro-tracce di sostanza biologica, il cui profilo genetico è compatibile con Fedele», sulla guarnizione della portiera destra, nella fessura tra il montante della portiera destra e la parte in plastica dell’attacco della cintura e nella fessura del regolatore di altezza destro della cintura. Il consulente è giunto alle conclusioni che la tesi sostenuta dalla difesa «è incompatibile con l’angusto abitacolo del furgone: è difficoltoso ipotizzare che l’imputato sia riuscito a recuperare la piccola pistola caduta a Fedele e che abbia eseguito una pulizia dell’imbottitura dei sedili così accurata da cancellare ogni traccia, considerato che la vittima perse sangue copiosamente e morì sul colpo».

Omicidio Ris Parma Ventimiglia

Le conclusioni. Ma nonostante gli accertamenti e le perizie, per la Corte d’Assise d’Appello, l’unico elemento certo è «che Pellegrino sparò al capo ed alla nuca della vittima – si legge nelle conclusioni -. L’imputato sostiene di averlo fatto all’interno del furgone, dopo aver afferrato la pistola sfuggita a Fedele. Per quanto la ricostruzione dell’omicidio da parte di Pellegrino appaia inverosimile, perché i due si sarebbero trovati in uno spazio troppo angusto per compiere i movimenti che ha descritto, va tenuto conto che sono state rinvenute tracce di sangue nell’abitacolo del veicolo su punti in corrispondenza del posto anteriore del passeggero che non trovano altra spiegazione, dovendosi escludere che tali tracce possano essere state lasciate dal contatto col cadavere. Non si può quindi negare con assoluta certezza che l’omicidio sia avvenuto nell’abitacolo. Anche laddove si volesse sostenere che in effetti Fedele venne colpito all’esterno, nel luogo isolato, in posizione inginocchiata e prona, non è possibile ravvisare ragione soltanto di tali modalità di esecuzione del reato che l’omicida avesse agito allo scopo di porre in essere un crimine dettato dal contesto mafioso. Il sovrastamento della vittima da parte dell’assassino non è una modalità del tutto tipica degli omicidi consumati da appartenenti alla criminalità organizzata. In mancanza di altri connotati specifici, l’aggravante contestata non può essere ritenuta».

Pellegrino è giovane, incensurato, ha «espresso dispiacere e cordoglio» e, soprattutto, non è fuggito. «Le attenuanti generiche possono essere accordate – concludono i giudici -, perché l’imputato è un giovane incensurato ed ha dimostrato rammarico per il gravissimo reato commesso: per quanto tale atteggiamento possa essere stato dettato da ragioni strumentali, è pur vero che rappresenta un gesto di umiltà nei confronti dei parenti della vittima. Ma va soprattutto evidenziato che, pur avendo avuto netto sentore che le indagini si stavano orientando su di lui nel momento in cui seppe del sequestro del furgone, potendo quindi assicurarsi la fuga, magari chiedendo l’appoggio dei familiari, pochi giorni dopo invece si costituì. accompagno gli inquirenti sul luogo del delitto e fornire una ricostruzione dei fatti; non si può peraltro pretendere da un imputato sincerità e collaborazione assoluta, essendo suo diritto tacere e persino mentire».