Storia locale

Apricale, la storia del borgo nel racconto dello storico Andrea Gandolfo

Sede primitiva dei Liguri Intemeli nell’antichità e oggi celebre per ospitare il famoso Castello della Lucertola

apricale drone castello lucertola piazza comune

Sanremo. Nuovo appuntamento con la storia locale a cura dello storico Andrea Gandolfo. Il racconto di questa settimana è dedicato al borgo di Apricale, in val Nervia, sede primitiva dei Liguri Intemeli nell’antichità e oggi celebre per ospitare il famoso Castello della Lucertola.

«Il paese, disteso su un ripido costone con la sua irregolare successione di case in pietra digradanti lungo un pendio soleggiato con la piramide sommitale del campanile che sovrasta l’abitato circondato a sua volta da rigogliosi uliveti e con il Monte Bignone sullo sfondo, è situato nella valle solcata dal torrente Merdanzo, una conca ubicata alla destra della Val Nervia subito dopo aver svoltato la strada che sale da Isolabona verso levante.

Il borgo è arroccato a semicerchio intorno all’altura del castello distendendosi tuttavia anche alle due estremità lungo la dorsale collinare che segue l’antico percorso della valle, mentre conserva ancora il suo caratteristico impianto urbanistico medievale con tre porte ad arco acuto del XIII secolo in cui si apriva la cinta muraria, contrassegnata da numerosi archivolti e vari ingressi di antiche botteghe divisi a metà da una lastra orizzontale, che conferiscono al centro storico dell’antico paese un aspetto particolarmente affascinante e suggestivo.

Il toponimo, la cui forma più antica è menzionata come Avrigallo in una carta del monastero di Lérins del 1092 e ribadita successivamente in documenti ufficiali del 1166 e del 1246, pare derivi dal termine latino apricus, cioè “solatio, soleggiato”, con chiaro riferimento alla particolare posizione del borgo, situato appunto su un poggio esposto a mezzogiorno, anche se l’esito della voce in vr, anziché in br, come nella sua forma dialettale abrigu, non è del tutto logico da un punto di vista strettamente fonetico, tanto che altri hanno proposto, in alternativa, la derivazione del toponimo da àvregu, ossia “pietra dura”, una voce che ricorre nel dialetto della vicina località di Pigna e che potrebbe essere collegata alla natura del costone roccioso sul quale si erge il borgo, che, a partire dal XIII secolo, fu chiamato Apricalo o Apricalis in quanto gli esiti dei suffissi -allo e -ale erano venuti a coincidere nella dizione locale vrigàr.

Nella fase più antica della preistoria il territorio di Apricale risultava abitato da varie popolazioni, probabili discendenti delle comunità preistoriche dei Balzi Rossi, della grotta dell’Arma presso Bussana e delle aree pastorali del Monte Bego. Secondo alcune ipotesi, in particolare, la zona di Apricale sarebbe stata la sede primitiva dei Liguri Intemeli, la più potente tribù dell’estremo Ponente durante l’età romana, i quali, a partire dal X secolo a.C., avrebbero frequentato questo territorio dedicandosi alla caccia e alla pesca e in seguito all’allevamento del bestiame, al commercio e all’agricoltura. Siti archeologici situati alle pendici del Monte Bignone testimoniano un’antica presenza umana nella zona di Apricale, dove si trovano alcuni macigni a forma di grotta, abitati forse da pastori e briganti, mentre alcuni reperti rinvenuti su un versante del Bignone attestano la presenza in zona di un bivacco di cacciatori risalente a circa 5500 anni fa.

Un altro sito particolarmente antico è poi quello costituito dalla necropoli a tumuli di Pian del Re, un grande monumento funerario del tipo «a circolo» con cumulo di pietrame a copertura, dotato di una ricca suppellettile funeraria e databile approssimativamente alla tarda età del Bronzo intorno al XIV-XIII secolo a.C. Nell’epoca preromana anche il territorio di Apricale venne interessato dalla diffusione della civiltà dei castellari, le fortificazioni costruite sulla sommità dei colli e delle montagne per uso prevalentemente difensivo, tra i quali sono rimasti alcuni resti nel territorio apricalese in località Semuigu, dove sono state ritrovate alcune strutture in pietra forse ricollegabili ad un antico castellaro situato nel punto più alto del borgo, le cui antiche origini sono probabilmente rintracciabili nel toponimo di età romana «Summus Vicus». Durante la fase della dominazione romana anche Apricale seguì le sorti del resto del territorio intemelio, entrando a far parte nel 14 a.C. della «IX Regio» voluta da Augusto nell’ambito della generale ristrutturazione del territorio italiano nella prima età imperiale.

Dopo la caduta dell’Impero romano anche il Ponente venne interessato dal fenomeno delle incursioni barbariche, tra le quali si ricorda quella dei Visigoti, che nel 411 saccheggiarono e distrussero Albenga e Ventimiglia, mentre varie leggende individuano in San Martino di Tours il primo evangelizzatore, nel corso del IV secolo, della zona di Apricale, dove avrebbe fondato la chiesa di San Martino. All’occupazione longobarda subentrò poi quella dei Franchi di Carlo Magno, che pose mano ad una vasta riforma amministrativa, in base alla quale l’antico municipio romano di Albintimilium venne trasformato in «Comitato», ossia contea, con giurisdizione sui bacini del Roia e del Nervia.

Nel successivo periodo feudale vennero intensificate le attività rurali e aumentò la consistenza demografica, mentre nella zona giungevano i Benedettini dal vicino monastero intemelio di San Michele, che introdussero le pratiche del disboscamento e sfruttamento agricolo della Val Nervia, dove fondarono tra l’altro la chiesa apricalese di San Pietro in Ento. Verso il Mille venne invece fondato da parte dei conti di Ventimiglia il castello di Apricale, attorno al quale si sarebbe sviluppato negli anni successivi il nucleo primitivo del borgo medievale, dove si concentrarono gli abitanti che avevano lasciato i piccoli agglomerati di San Pietro, Foa e San Martino.

Già alla fine dell’XI secolo il nucleo di Apricale era ben formato con numerose case e capanne situate lungo il pendio e alla base del colle dominato dal castello, tanto che nel 1092 il paese è citato espressamente in un documento pubblico nella forma Avrigallus, mentre nel 1166 un altro documento riguarda la vendita di un possedimento ad un certo Rubaldo Fabre di Dolceacqua da parte del priore del monastero di San Michele di Ventimiglia ubicato nella località Belveder in territorio apricalese. Nel secolo XIII il borgo era ormai consolidato e i suoi abitanti miravano ad insediare un’amministrazione autonoma; infatti la data del 1216 quale anno dell’elezione dei primi consoli del paese, pur non essendo storicamente certa, dimostra la volontà della popolazione locale di amministrare la giustizia senza l’ingerenza del conte di Ventimiglia, da cui dipendeva ancora formalmente il borgo.

Contemporaneamente all’elezione dei consoli venne anche compilato un primo nucleo di capitula, cioè di leggi che regolavano minuziosamente tutti gli aspetti della vita quotidiana e dovevano essere rispettate da tutti i cittadini. Gli Statuti di Apricale, approvati nel 1267, sono quindi alla base della convivenza civile tra gli abitanti del borgo attraverso un’accurata e dettagliata regolamentazione di tutti gli aspetti della vita della piccola comunità: dalla raccolta della legna nel bosco alla conduzione al pascolo delle capre, dai tributi che dovevano essere versati al comune alle condanne per i reati più gravi, mentre precise norme riguardavano le attività campestri, la pulizia delle strade, il commercio, le funzioni religiose e la punizione di omicidi, ladri e piromani, per i quali era anche ammesso il cosiddetto «giudizio di Dio», che consisteva nell’attraversamento di un breve tratto di strada con un ferro rovente in mano da parte dell’imputato, il quale veniva considerato innocente se effettuava l’operazione senza riportare ustioni.

Frattanto, nella guerra scoppiata nel 1220 tra Genova e Ventimiglia, Apricale si era schierata a favore di quest’ultima, tanto da essere minacciata di una sanzione pecuniaria da parte del marchese Ottone del Carretto che agiva a nome dell’imperatore Federico II. Una successiva discordia vide contrapposti i consoli apricalesi al conte di Ventimiglia Ottone a causa del mancato versamento dei tributi; la soluzione della lite venne allora affidata al nobile genovese Sorleone Pevere, che condannò i consoli di Apricale ad una multa da corrispondere al conte intemelio.

Dopo il trasferimento di Ottone nella Valle del Maro, Apricale rimase comunque sotto la signoria dei conti di Ventimiglia, come attestato dal giuramento di fedeltà compiuto dagli Apricalesi al conte Filippino il 10 dicembre 1265, mentre l’antico comitato intemelio si stava proprio in quegli anni lentamente sgretolando anche di fronte alle sempre più forti aspirazioni dei vari paesi ad ottenere la piena autonomia dal capoluogo. Nel dicembre 1272 il paese venne occupato militarmente dall’avvocato genovese Janella, che fu tuttavia scacciato l’anno successivo da un contingente guidato da Oberto Spinola, mentre il 14 dicembre 1276 quattro rappresentanti del popolo di Apricale raggiunsero un importante accordo con il conte di Ventimiglia Filippino, in base al quale veniva decisa l’entità dei tributi che la comunità avrebbe dovuto versare ai conti, si concedeva a Filippino e ai suoi eredi la facoltà di eleggere il podestà e i quattro consoli del paese in accordo con la maggior parte della popolazione e si stabilivano le pene e le sanzioni per i principali reati, che potevano essere appellati solo davanti al conte senza possibilità per i consoli di intervenire in merito per bloccare il procedimento.

Il conte Filippino confermò inoltre ai delegati della comunità di Apricale il diritto di erbaggio e tutte le consuetudini, usi e capitoli scritti e non scritti applicati nei tempi passati dai suoi predecessori, mentre erano previste gravi pene per la parte inosservante dei patti appena statuiti. Questo atto riveste particolare rilevanza nella storia del paese perché segnò di fatto la fine della dominazione feudale dei conti di Ventimiglia e il passaggio di Apricale sotto il dominio del potente signore di Dolceacqua Oberto Doria, che già prima del 1287 aveva assunto il potere sulla comunità apricalese, che il 3 gennaio 1287 sancì la sua unione con il paese di Isolabona, i cui abitanti si impegnarono ad obbedire al podestà e ai consoli nominati dal signore di Apricale e a rispettare le leggi e le consuetudini stabilite dal Parlamento apricalese in modo che i due paesi formassero un corpo unico, mentre la curia sarebbe rimasta quella apricalese e gli abitanti di Isolabona avrebbero da allora pagato le imposte direttamente al signore di Apricale.

Nonostante l’unione con Isolabona, il paese rimase formalmente autonomo, mentre la popolazione aumentava di numero di pari passo a quello delle case che si andavano via via costruendo sul colle dominato dal castello. In quel periodo si verificarono inoltre numerosi liti e controversie con gli abitanti dei paesi confinanti per sconfinamenti di bestiame o altri problemi legati alla delimitazione delle rispettive zone di pascolo, aggravati ulteriormente dai differenti regimi politici in quanto Apricale apparteneva ai Doria di Dolceacqua, mentre Pigna dipendeva dagli angioini signori di Provenza e Castelfranco con Baiardo erano territori della Repubblica di Genova.

Dopo la morte di Oberto e dei suoi discendenti Andreolo e Domenico, la signoria venne divisa tra Morruele, che mantenne il dominio su Dolceacqua, e il fratello Oliviero, al quale fu assegnato Apricale, mentre i paesi della Val Nervia venivano colpiti dalla peste del 1348, che mietè molte vittime tra le quali anche Morruele, al quale subentrò il figlio Imperiale, che ereditò il feudo di Dolceacqua e la parte già attribuita ad Oliviero, cioè Apricale. La gestione di Imperiale fu però caratterizzata da una serie di malefatte, che causarono la reazione degli abitanti di Sospello, Pigna e Rocchetta, i quali avrebbero in più riprese compiuto devastazioni nei paesi del feudo doriano per rappresaglia. Dopo la morte di Imperiale nel 1387, il potere passò ai discendenti Marco, Luchino e Giovanni, che governarono pacificamente il loro dominio per diversi decenni fino alla salita al potere di Enrichetto, che combattè contro i Guelfi di Ventimiglia ma varò anche alcune importanti riforme concernenti l’organizzazione del feudo e la regolamentazione delle attività commerciali con i paesi limitrofi soprattutto sotto il profilo del regime fiscale.

Nel corso del XV secolo si perfezionarono ulteriormente i contenuti legislativi degli Statuti, si diffusero sempre più le confraternite e gli ordini monastici e sorsero le prime strutture ospedaliere per offrire riposo notturno ai pellegrini, ai viandanti e a tutti coloro che avessero avuto bisogno di assistenza. In questo periodo la comunità di Apricale concluse anche un’importante serie di accordi con i paesi vicini allo scopo di ridurre le discordie, le vendette private e le rappresaglie sorte per questioni di sconfinamento di mandrie nei territori limitrofi. Il primo di questi accordi fu stipulato il 5 gennaio 1409 con i sindaci di Dolceacqua e Perinaldo per una moratoria delle rappresaglie, mentre il 23 febbraio 1456 fu sottoscritto un vero e proprio trattato di pace con i rappresentanti di Baiardo, che si promisero reciprocamente di non ricorrere più a dannose ritorsioni per le note controversie di natura confinaria.

Altre convenzioni furono stipulate con il sindaco di Briga il 22 marzo 1473 in merito alle procedure di arresto nei rispettivi territori, con il sindaco di Sospello il 20 aprile 1479 per l’abolizione delle rappresaglie e l’avvio di una politica di collaborazione commerciale con i paesi della Valle Lantosca; tali accordi furono solennemente ribaditi nell’adunanza del Consiglio del vicariato di Ventimiglia e della Valle Lantosca tenutosi il 3 luglio 1492 alla presenza dei rappresentanti dei vari paesi, i quali affidarono anche a Domenico Grana l’incarico di ratificare la convenzione già stabilita il 19 luglio del 1485.

Intanto il successore di Enrichetto Bartolomeo Doria decise di sopprimere suo zio, il signore di Monaco Luciano Grimaldi, allo scopo di estendere il feudo di Dolceacqua sino al confine con la contea di Nizza. Raggiunto il congiunto a Monaco, lo pugnalò a morte il 22 agosto 1523 causando però la ferma reazione del fratello dell’ucciso e vescovo di Grasse Agostino Grimaldi, che organizzò immediatamente una spedizione punitiva formata da 700 uomini, i quali risalirono il corso del Nervia raggiungendo prima Dolceacqua e poi Apricale, che furono così devastate mentre Bartolomeo riusciva a salvarsi la vita riparando in Francia. Dichiarato decaduto dall’imperatore Carlo V, fu sostituito dal luogotenente del vescovo Agostino, Bartolomeo Grimaldi, al quale, il 3 novembre 1523, i sindaci di Apricale giurarono fedeltà a nome dell’intera popolazione.

Nel marzo dell’anno successivo intervenne però il duca Carlo III di Savoia, che reintegrò nei suoi domini lo spodestato Bartolomeo, che aveva ormai donato al sovrano sabaudo tutti i suoi beni e diritti sui feudi di Dolceacqua, Apricale e Perinaldo. Ritornato il paese ai Doria, passati sotto la protezione sabauda, assunse il potere l’esponente della famiglia Stefano, nel corso della cui reggenza avvenne la divisione dei due comuni di Apricale e Isolabona, che erano uniti amministrativamente dal 1287 e che riacquistarono la loro autonomia con l’elezione dei rispettivi parlamenti e l’attribuzione del territorio comunale per due terzi ad Apricale e per un terzo ad Isolabona.

Sul finire del XVI secolo il paese venne interessato insieme ad altri paesi dell’estrema Liguria occidentale da una grave pestilenza, che provocò molte vittime soprattutto a Ceriana, Cipressa e Costarainera, mentre nuovi e più gravi danni avrebbe dovuto subire il borgo nel corso della guerra del 1625-27 tra il duca di Savoia Carlo Emanuele I e la Repubblica di Genova, quando devastazioni belliche e frequenti carestie, unite alla cronica mancanza di viveri, misero letteralmente in ginocchio la popolazione apricalese. Nel 1627 Carlo Doria dovette anzi fuggire dal suo feudo, fatto occupare dai Savoia, e rifugiarsi a Torino, dove promise al duca sabaudo la cessione della sua signoria per la somma di 270 mila scudi d’oro.

Pentitosi della promessa, Carlo si allontanò quindi da Torino morendo poco dopo e lasciando il feudo in eredità al figlio Francesco, il quale pervenne ad un accordo con il duca di Savoia, che non solo rinunciò alle sue mire sul possedimento conteso, ma concesse addirittura a Francesco Doria il titolo di marchese con atto del 25 gennaio 1652, rinnovandogli nello stesso tempo l’investitura sul feudo di Dolceacqua, Apricale, Isolabona e Perinaldo. Pesanti conseguenze ebbe anche la guerra del 1672 tra Savoia e Genova sul territorio di Apricale, che fu oggetto di devastazioni e saccheggi da parte soprattutto dei soldati genovesi, che distrussero le coltivazioni nella zona a mezzogiorno del torrente Merdanzo, come risulta tra l’altro da una supplica degli abitanti di Apricale e Perinaldo inoltrata nel luglio del 1685 al duca Vittorio Amedeo II per ottenere un risarcimento dei danni subiti.

Agli inizi del XVIII secolo il paese venne coinvolto nella guerra di successione spagnola, tanto che nel 1703 il comune dovette organizzare un gruppo di uomini armati per difendere il borgo da numerosi banditi e disertori che compivano rapine e saccheggi ai confini dell’abitato, mentre sei anni dopo gli alberi di ulivo e da frutta della zona furono colpiti da una rovinosa gelata, che causò molti danni alle coltivazioni, alla quale seguì una grave siccità nel 1718 ed una terribile epidemia di peste nel 1720 contrastata da un notevole dispiegamento di guardie di sanità.

Nel 1735 la comunità venne inoltre colpita da una grave carestia, che costrinse gli Apricalesi a cibarsi addirittura di erbe selvatiche, mentre il parroco Rebaudo, per provvedere all’acquisto di grano necessario per il sostentamento della popolazione, diede in pegno gli argenti della chiesa ad un certo Debrach, un inglese residente a Sanremo, che venne poi risarcito della somma spesa dalla comunità che rientrò così in possesso dei preziosi argenti. Nel Settecento raggiunse inoltre il culmine il secolare contrasto con Baiardo per i soliti problemi relativi alla delimitazione delle rispettive aree di pascolo, che assunsero in quegli anni anche una valenza di carattere politico per l’appartenenza del territorio di Baiardo alla Repubblica di Genova e di quello apricalese al Ducato sabaudo.

Anche la guerra di successione austriaca causò pesanti ripercussioni alla comunità di Apricale soprattutto tra il 1744 e il 1746, quando la Val Nervia venne attraversata da migliaia di soldati, che non esitarono a requisire muli, asini e capre nel marchesato di Dolceacqua, considerato dai franco-spagnoli alla stregua di una terra da conquista. La successiva guerra dichiarata dai Savoia contro la Francia giacobina nel 1792 portò a nuovi fermenti anche ad Apricale, dove tuttavia non risulta che si siano svolti dei moti legati all’ondata rivoluzionaria, come invece accadde nei vicini paesi di Camporosso e Castelfranco. Nell’aprile 1794 le truppe rivoluzionarie al comando del generale Massena, varcato il confine di Ventimiglia, occuparono le località costiere e dell’interno tra le quali anche Apricale, dove giunse un picchetto di soldati con i primi ordini di requisizioni di viveri e animali da soma, instaurando quindi un vero e proprio regime di occupazione con gravi soprusi nei confronti della popolazione. Dopo la nascita della nuova Repubblica democratica ligure, anche ad Apricale le autorità giacobine imposero un maire alla guida dell’amministrazione comunale.

Nei primi mesi del 1800 le truppe francesi di stanza in Val Nervia cominciarono però a ritirarsi incalzate da quelle del generale austriaco Elsnitz, che ai primi di maggio costrinse il generale francese Suchet a ripiegare precipitosamente sul Varo. Negli stessi giorni una colonna di Tedeschi occupò i paesi della Val Nervia, dove vennero sradicate gli alberi della Libertà. Tornato però Napoleone dall’Egitto, l’esercito francese si ricompattò subito e inflisse agli Austriaci la decisiva sconfitta di Marengo, dopodiché anche in Riviera fu ripristinato il dominio francese con la reintroduzione dei precedenti decreti concernenti pure la vita religiosa. Nel 1805 Apricale seguì le sorti del resto della Liguria e venne così annesso all’Impero napoleonico, al quale dovette però contribuire con numerosi suoi abitanti arruolati obbligatoriamente negli eserciti imperiali e impegnati nelle varie campagne militari in Europa. Il periodo napoleonico fu peraltro caratterizzato da una diffusa miseria dovuta anche alla scarsità di olive, che causò diverse vittime soprattutto a Ventimiglia, mentre non mancarono neppure casi di rapina ai danni dei mulattieri provenienti dal Piemonte.

Con l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna nel gennaio 1815, Apricale, che era già nell’orbita sabauda, non subì particolari modifiche nella conduzione politica e amministrativa, anche se, nonostante l’abolizione del loro feudo, i Doria mossero una lite contro il paese insieme a quelli di Dolceacqua, Isolabona e Perinaldo per riottenere gli antichi privilegi, che furono riconosciuti da una sentenza della Regia Camera dei Conti del 4 gennaio 1817, con la quale le comunità furono obbligate a versare ai discendenti dell’antica famiglia feudale il 12% dell’olio prodotto, come era in uso nei secoli passati. Il 1815 è anche ricordato per la straordinaria invasione di lupi cervieri che seminarono il panico per qualche mese nei boschi dell’entroterra fino a quando non vennero sterminati da una grande battuta di caccia organizzata dal governo sabaudo.

La nuova amministrazione restaurò anche le vecchie cariche comunali e le antiche leggi, tra le quali vi erano l’obbligo ad utilizzare e diffondere il nuovo sistema metrico decimale e l’introduzione del servizio militare obbligatorio, che, per non sottrarre tanti giovani in età da lavoro alle famiglie, fu regolato in base all’estrazione a sorte di tutti coloro che venivano dichiarati abili alla leva. Il governo torinese nominava inoltre, su segnalazione degli intendenti delle province, i funzionari preposti a sorvegliare sul buon andamento dell’amministrazione pubblica e sul reclutamento dei cittadini in caso di guerra; tra questi si annoverano il capitano della compagnia della Guardia Nazionale di Apricale Luigi Giacomo Grana, i tenenti Giuseppe Rebaudi e Giovanni Pisano e i sottotenenti Giovanni Battista Pizzio e Domenico Marchesano, nominati tutti dall’intendente della Provincia di Sanremo nel 1860.

I decenni successivi avrebbero quindi visto la comunità apricalese condividere le sorti degli altri paesi del Ponente, mentre gravi fatti come il terremoto del 1831, l’epidemia di colera del 1836-37 e il rovinoso sisma del 1887, che provocò due feriti, mentre nei mesi successivi al sisma quarantuno Apricalesi ottennero un mutuo statale di 77.780 lire, alle quali si aggiunsero 87.700 lire per la riparazione di edifici comunali e altri enti di carattere religioso del paese, che avrebbe tuttavia pagato un alto prezzo in termini di vite umane nel corso della prima guerra mondiale e anche della seconda, quando il borgo subì le pesanti conseguenze dell’occupazione tedesca, iniziata il 28 ottobre 1944 e protrattasi fino alla Liberazione, nel corso della quale i nazisti compirono rapine e saccheggi, prendendo ogni tre giorni alcuni ostaggi minacciati di fucilazione in caso di sabotaggi da parte delle formazioni partigiane, che nel settembre del ’44 avevano provocato due frane sulla strada militare per Apricale allo scopo di tagliare le vie di comunicazione alle forze nemiche, mentre nel successivo mese di novembre gli esponenti dei partiti antifascisti locali avrebbe costituito il CLN apricalese, formato da Giuseppe Buscaglia, Giovanni Battista Martini, don Pio Mauro, Domenico Romagnone, Giovanni Battista Romagnone e Luigi Ronternoli.

Nel periodo del secondo dopoguerra si moltiplicarono le iniziative per dare nuovo impulso allo sviluppo economico e culturale dell’antico paese con la promozione dei prodotti tipici locali, tra i quali soprattutto l’olio di oliva e il pregiato vino Rossese, dell’artigianato, con la tipica ceramica di Apricale, delle attività floricole e con il deciso rilancio del turismo anche tramite l’organizzazione di una nutrita serie di manifestazioni enogastronomiche e spettacoli di intrattenimento vario, come quelli inscenati nella piazza centrale del borgo dal Teatro della Tosse di Genova e l’esposizione nei vicoli del centro storico delle opere dei cosiddetti «pittori di strada».

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