Per non dimenticare

Trentennale strage Via D’Amelio, procuratore Lari: «A Bordighera e Ventimiglia la mafia c’è, ma nessuno trova il coraggio di denunciare» fotogallery

Il commovente ricordo della vedova dell'agente Vito Schifani. Prefetto Nanei: «Non sono eroi per caso»

Bordighera. «Che cosa oggi noi possiamo dire di quel sacrificio? La cosa più importante che possiamo dire è che loro, tutti, non solo i magistrati ma anche chi faceva la scorta, erano consapevoli del pericolo a cui andavano incontro. E questa è la cosa più sconvolgente, perché ognuno di loro e in particolare gli agenti della scorta avrebbero potuto fare qualsiasi altra cosa, meno pericolosa e più defilata e invece no: hanno voluto fare quello. Il giudice Borsellino lo avevano definito giornalisticamente un morto che cammina: non si è tirato indietro. Questo credo che sia il più grande messaggio che ci hanno lasciato: la consapevolezza di fare fino in fondo il proprio dovere, potendo non farlo. Non sono eroi per caso. Non sono persone che si sono trovate in un certo momento, in una certa situazione e hanno reagito. No, loro lo sapevano. Il vero eroismo è proprio quello: la consapevolezza di andare incontro a un pericolo e la consapevolezza che quello che stavano facendo era giusto». Con queste parole, il prefetto di Imperia Armando Nanei ha ricordato in serata, ai giardini Lowe di Bordighera, il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, uccisi per mano della mafia il 19 luglio 1992 in Via D’Amelio, a Palermo.

Al convegno organizzato dal coordinamento provinciale di Libera, dal titolo “Da via D’Amelio… semi di legalità e giustizia”, oltre a Nanei sono intervenuti il procuratore capo, Alberto Lari, il questore Giuseppe Felice Peritore Maria Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992 con Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo.

«Nel 1992 avevo appena 22 anni – ha ricordato Maria Rosaria Costa -. Ero sposata da pochi anni con un agenti di scorta, che era Vito Schifani, che aveva la passione di entrare in polizia, anche da ragazzino. Ricordo che prima di entrare nella scorta del giudice Falcone, lui era un poliziotto dei “Falchi” della Polizia di Stato». «Quando mi comunicò che avrebbe fatto parte della scorta del giudice Falcone, me lo ricordo benissimo, mi venne proprio un tonfo al cuore – ha aggiunto – Perché già dal 1989, il giudice Falcone era già nel mirino di quella che io chiamo Cosa Sporca, non la voglio chiamare Cosa Nostra perché non è cosa mia. Quando mi disse che voleva far parte della scorta con dei suoi colleghi, mi disse: “Ricordati che tu non mi devi aspettare in piedi, perché il giudice Falcone non ha orari”. Lui faceva una vita normale, mentre i ragazzi della scorta non la facevano una vita normale, perché dovevano stare fuori, fermi, ad aspettare la chiamata del magistrato». Un racconto spesso interrotto dalla commozione, quello della vedova di Vito Schifani, che ha voluto «ricordare la grandezza di questi ragazzi, che non si tiravano indietro, non avevano orari, non avevano un vita sociale, nulla». Vito Schifani, quel 23 maggio del 1992, non doveva essere in servizio: aveva sostituito un collega per tre giorni di seguito. «Ma andò, ubbidì», ricorda la vedova. «Ricordo ancora lo scalpitio delle scarpe, mi affacciai e non lo vidi più, perché dovevano arrivare puntuali, dovevano essere pronti per quando arrivava il giudice Falcone». «La notizia non la ricevetti dalla polizia, ma da un amico, che chiamò e disse che c’era stato un attentato e c’erano dei morti – ricorda Maria Rosaria Costa -. Chiamai la questura e mi risposero che non sapevano niente, mi dissero: “Si guardi il telegiornale”». A quel punto la giovane moglie, mamma di un bimbo di 4 mesi, scappa per strada e si ferma davanti a un poliziotto in borghese: «Non mi guarda negli occhi – ricorda – Perché già sapeva, e mi dice che mio marito si trovava all’ospedale civico e che era ferito». Anche al pronto soccorso alla donna non viene detto nulla, ma quando incontra due colleghi del marito che la guardano con le lacrime agli occhi, la giovane capisce tutto. «Mi dirigo verso l’obitorio – continua la donna – Non c’è nessuno. Voglio scendere, perché mio marito lo voglio vedere. Ma due carabinieri in divisa, mi dicono che non posso entrare. Non scendo e vedo arrivare il giudice Paolo Borsellino. La prima persona che era andata a dare l’ultimo saluto a questi poveri ragazzi, a questi resti, fu Paolo Borsellino».

A ricordare la strage di Via D’Amelio è stato anche il procuratore capo della Repubblica di Imperia Alberto Lari, che nel 1992, da giovane magistrato, aveva scelto il tribunale di Marsala come sede di destinazione: «Quando l’ho scelto ho pensato, più che alla mafia, al mare – confessa – Ma dopo che ho scelto, dopo neanche un mese hanno ammazzato Falcone e poi dopo tre mesi hanno ammazzato Borsellino. E quindi hanno iniziato a tremarmi le gambe al pensiero che dovevo andare a Marsala. Anche alla famiglia ha cominciato a tremare: non era una prima esperienza semplice, nel 1992. Però l’esperienza mi ha arricchito moltissimo perché posso dire di aver avuto la fortuna di lavorare con le persone che avevano lavorato con Borsellino fino a un attimo prima». «Poi ho potuto apprezzare anche come lavorava Paolo Borsellino, perché a Marsala aveva istruito alcuni processi che poi ho dovuto fare come organo giudicante – ha aggiunto – Ho potuto vedere come lavoravano in concreto, la serietà di come lavoravano, le prove come venivano offerte. Dovete tenere presente che quando sono arrivato a Marsala nel 1992, a Palermo c’era appena stato il maxi processo e quindi non c’era mai stato un processo che dicesse che la mafia esiste a Trapani, a Marsala, a Mazzara del Vallo, a Castelvetrano, a Partanna». «Poi sono arrivato al nord, ma figurati esisteva la mafia al nord – ha detto ancora Lari – E invece dieci anni di lavoro e ci sono delle sentenze definitive che dicono che esiste anche la mafia al nord. Oggi, come già avevo detto a Ventimiglia, abbiamo tre sentenze definitive che dicono che esiste la mafia al nord, in Liguria: Maglio 3, i Conti di Lavagna e La Svolta. Quest’ultima ribadisce che esiste la mafia a Bordighera e a Ventimiglia. Sì, la bellissima Bordighera, dove siamo oggi. C’è una sentenza che dice che anche in questa città esiste la ‘ndrangheta». «Il mio discorso di Ventimiglia dello scorso anno faceva un appello – ha concluso – Ho detto l’anno scorso che bisogna trovare il coraggio di denunciare. Ma come, a Partanna, in terra siciliana, dove la mafia la percepisci ora per ora, minuto per minuto, tre ragazzotte trovarono il coraggio di denunciare i mafiosi e qui, a Bordighera, o a Ventimiglia nessuno trova il coraggio. Questo dovrebbe far riflettere che forse, tutto questo coraggio non c’è: è passato un anno esatto e io sul mio tavolo non ho visto nemmeno una denuncia». «Voi mi potrete dire: “Per forza non c’è una denuncia, non esistono, non è che possiamo inventarceli i fatti. Se non ci sono le minacce, se non ci sono le estorsioni, se non subiamo pressioni… mah… Quando abbiamo fatto le indagini recentemente ad Imperia, c’è stata questa vicenda che riguardava la politica, le tangenti, nessuno ci è venuto a denunciare questa cosa, eppure esisteva. Quando il mese scorso a Sanremo a due ragazzi in moto hanno sparato con il fucile, nessuno è venuto a denunciarlo, il fatto. E’ uscito sul giornale perché li abbiamo arrestati, ma nessuno lo sapeva che era successo. Ma come? A Sanremo sparano? E poi, nella sentenza La Svolta, si parla di estorsioni, minacce, di fatti che hanno riguardato anche la politica. Quindi, diciamo, la realtà non può essere immune da questa situazione. Eppure nessuno la denuncia. Io credo che il modo migliore per ricordare Falcone e Borsellino è fare i processi, denunciare i fatti, trovare il coraggio di avere fiducia nella magistratura: io ci metto la faccia, l’esperienza di una vita dedicata a queste cose, anche le ultime vicende che ho detto su Imperia, credo che possano dimostrare, ora non voglio darmi un tono, che comunque della autorità giudiziaria qui ad Imperia ci possiamo fidare, che abbiamo fatto sempre il nostro dovere e quindi ci può essere fiducia nel venire da noi se succede qualcosa a riferircelo. Io vi posso promettere solo che se arrivano delle denunce cercheremo di svilupparle nel modo migliore possibile, con il solito equilibrio che ho sempre cercato di dimostrare». 

«Le date del 23 maggio e del 19 luglio sono date scolpite non solo nella nostra memoria. Tutti noi ricordiamo cosa facevamo, dove eravamo, quei giorni – ha detto il questore di Imperia Giuseppe Felice Peritore – Io ero un ragazzo come erano ragazzi loro, avevo 29 anni. Ci vedevamo nei corridoi della questura, scherzavamo, ridevamo, fino a pochi momenti prima di quel 23 maggio». «Per noi Falcone e Borsellino erano il simbolo della lotta contro la mafia. Se non c’erano più loro – ha aggiunto il questore – Cosa potevamo fare noi piccoli, giovani, spauriti poliziotti che non avevano la statura e la grandezza di Falcone e Borsellino? La speranza, però, non tardò ad arrivare, quella data, del 19 luglio, cambiò la storia della lotta alla mafia. La speranza fu rappresentata dalle manifestazioni di piazza, per la prima volta nella storia contro la mafia. Le lenzuola bianche comparvero sulle finestre a dimostrazione che la società era pulita e si schierava a fianco di chi combatteva la mafia: i giudici e le forze di polizia. Era la primavera palermitana. Guidate da un pull straordinario di magistrati, le forze di polizia iniziarono a smantellare la cupola, colpo dopo colpo. I principali boss mafiosi, latitanti, furono arrestati. 
Ogni anno, i giorni della ricorrenza delle stragi di Capaci e via d’Amelio, non devono farci dimenticare che la mafia esiste ancora magari con altre forme. Ciascuno di noi, deve compiere la propria parte per contrastarla anche con piccoli gesti. Solo così il coraggio di tanti uomini e donne che hanno sacrificato la vita nella lotta all’illegalità non sarà stato vano».

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