I discorsi

Procuratore di Imperia Alberto Lari a Ventimiglia: «In quattro anni mai visto denunce per reati intimidatori»

Intervenuto insieme all'ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli alla conclusione del campo "E!State di Libera" contro le mafie

Ventimiglia. «Mi devo per forza riagganciare a ciò che ho detto il 21 luglio scorso a Ventimiglia, quando ho fatto un appello al coraggio di denunciare i fatti, i reati. Sul giornale è uscito che parlavo di Imperia, ma non parlavo di Imperia, parlavo della provincia di Imperia e mi riferivo, in particolar modo, a Ventimiglia». Ha esordito così, il procuratore capo di Imperia, Alberto Lari, nel suo intervento alla Spes di Roverino nel corso dell’evento organizzato da Libera per tracciare un bilancio del lavoro svolto nel campo “E!State“, in cui giovani studenti di Scienze politiche e Giurisprudenza hanno raccontato  le fasi della loro ricerca sui beni confiscati alle mafie in provincia di Imperia.

Lari è tornato a parlare dell’importanza di denunciare i reati di stampo mafioso, le intimidazioni e le minacce, come già aveva fatto al chiostro di Sant’Agostino, sempre a Ventimiglia, in occasione della serata, sempre organizzata da Libera, per ricordare il 19 luglio del 1992, giornata in memoria delle vittime della strage di via D’Amelio.

«Il mio invito a rendere le dichiarazioni – ha spiegato il procuratore – Fu un riferimento anche un po’ provocatorio al fatto che avevo avuto questa esperienza processuale a Marsala e le donne erano state coloro che avevano avuto il coraggio di denunciare. Mi sembrava anche un modo di stimolare l’interesse dicendo “guardate, voi che vivete a Ventimiglia nel tranquillo nord Italia vicino alla frontiera francese, non avete il coraggio di denunciare certi fatti, sappiate che in Sicilia dove poco prima avevano fatto saltare per aria i magistrati e la scorta, dove avevano fatto saltare per aria altri magistrati con la relativa scorta, proprio in quel momento c’erano delle donne che avevano avuto il coraggio di denunciare i propri parenti, le persone più care, gli amici delle persone più care, mettendosi ad un rischio che effettivamente era non concreto, era molto di più”. Però poi qualcuno poteva dire: “Ma il magistrato ha lanciato questo appello, ma questo appello ha una sostanza o è un modo di dire?”. Cioè, ma perché si invita a denunciare, uno potrebbe dire: “Ma se io non ho niente da denunciare, perché devo denunciare?” E lì mio intervento si era fermato perché poi i tempi erano contingentati e quindi, magari, oggi posso approfittarne prendendo sempre spunto dai processi, perché ovviamente un magistrato parla solo ed esclusivamente con le carte processuali e non con il sentito dire».

Per spiegare il suo appello, Lari ha snocciolato alcune particolari situazioni emerse nel processo “La Svolta”, che si è concluso recentemente con le condanne, divenute definitive, di Giovanni Pellegrino a 10 anni e 6 mesi, Maurizio Pellegrino (10 anni) e Antonino Barillaro (7 anni).

«Se noi andiamo a vedere ciò che è emerso nell’indagine “La Svolta” – ha spiegato Lari – Vediamo che ci sono decine e decine di situazioni che dovevano necessariamente essere denunciate e non sono state denunciate. Ecco che allora il mio riferimento a dire “ma a Ventimiglia la gente che fa?”, aveva una concretezza, perché ora vi dirò di tutta una serie di situazioni emerse nel corso del processo che non erano state denunciate dai diretti interessati».

Ed ecco che a Ventimiglia, negli anni 2009, 2010, 2011 «quindi non stiamo parlando di tempi molto passati, vi erano situazioni in cui, ad esempio, se un direttore di banca riceveva la visita di una certa persona che gli faceva un certo discorso, e il direttore di banca non lo capiva, si poteva dire al direttore di banca: “Senti un attimo, tu mi sa che non hai capito, vai subito là” (che sarebbe dal mafioso, condannato in via definitiva…) e il direttore di banca prendeva e nel giro di pochissimi minuti andava dal mafioso per rendergli conto del fatto del perché non volevano fare una cosa o magari del fatto che aveva capito che forse quella cosa doveva essere fatta. Questo è il primo esempio di quello che è il potere di certe persone, anche in una comunità come questa».

E ancora: «Oppure, ad esempio, il gestore di un night, a cui erano stati chiesti dei soldi “se no ti facciamo saltare il locale” – ha aggiunto il procuratore – E cosa ha fatto il gestore? Non è andato a denunciarlo alla polizia, è andato dal mafioso e gli ha detto: “Senti un attimo, io ho ricevuto questa richiesta di denaro, che faccio?”, “Tranquillo, non ti preoccupare, ci penso io”. Questo a Ventimiglia. Oppure ad esempio uno che aveva reso delle dichiarazioni di critica nei confronti di una certa persona e a questo punto andava dal mafioso, ci pensava il mafioso a fare in modo che questa persona si scusasse perché aveva reso delle dichiarazioni che non erano state gradite dal politico di turno: ci pensava il mafioso a farglielo capire».

L’omertà, la paura di raccontare, di pronunciare certi nomi: sono tutte situazioni emerse nel corso del processo. Ma non solo: a Ventimiglia si andava dal mafioso per chiedere di essere nuovamente assunti dal datore di lavoro che aveva licenziato. «Non ti preoccupare, ci penso io», rispondeva il mafioso. «Oppure – aggiunge Lari – Di altre persone che gli si diceva che dovevano andare a parlare con il mafioso perché era meglio così, perché forse avrebbe trovato qualche appoggio, qualche resistenza, anche genericamente: queste persone andavano dal mafioso per sapere che cosa questo doveva dir loro. Oppure di più persone che avevano ricevuto minacce, attentati, auto bruciate ecc.. e che anziché fare la denuncia si rivolgevano al mafioso per chiedergli di risolvere questo problema. E queste sono tutte situazioni accertate nel processo e che dimostrano quello che avevo cercato di dire così genericamente la scorsa volta: che la gente ha paura di denunciare questi fatti. O comunque, più che paura, delle volte fa anche un lavoro di verifica di pro e contro: dice “Ma se faccio la denuncia l’autorità giudiziaria che fa? Fa un’indagine, il processo dura una vita…”. Quindi qua a Ventimiglia c’è questa mentalità che pensavamo che non esistesse, e cioè si pensa che è più produttivo rivolgersi al mafioso rispetto che alla giustizia. Che significa che avremo anche delle colpe per la lentezza della giustizia, però capite che questo è un sistema che veramente ha del paradossale».

«Poi mi sono permesso anche di evidenziare di come la ‘ndrangheta a Ventimiglia fosse una cosa concreta – ha detto ancora il procuratore – Perché il processo aveva anche dimostrato in maniera inequivocabile di tutte le richieste di protezione che sono state fatte a queste persone o a tutte le raccomandazioni che sono state fatte dal mafioso di turno. Stiamo parlando di una persona che ormai aveva ottant’anni e che quindi, nell’immaginario normale, a quell’età non conta più niente, è da anni in pensione da anni, e invece questa persona aveva questo potere».

Al mafioso ottantenne, lo dimostrano le carte, ci si rivolgeva per qualsiasi cosa: dall’inquilino moroso all’impossibilità di liberare un immobile, passando addirittura al trovare un loculo libero, nell’immediatezza, per dare degna sepoltura a un defunto. Problemi che venivano fatti «risolvere sempre al solito modo dall’ottantenne». Al mafioso di turno ci si rivolgeva anche per tentare di ottenere un atteggiamento diverso, nei propri confronti, dalla polizia municipale: «Poi il processo magari non avrà dimostrato che l’atteggiamento della polizia municipale è stato effettivamente diverso – specifica Lari – Però quello che volevo evidenziarvi è come si cerca di risolvere un problema. Nell’immaginario del cittadino, per far sì che la polizia municipale non venga più, vado dal mafioso».
Per cercare lavoro per il proprio figlio? Si va a chiedere al mafioso. Per farsi concedere un prestito dalle banche? Si va dal mafioso. E, dice Lari, «con l’intervento del mafioso di turno, la banca cambiava idea: “Te lo faccio”».

Un altro esempio. «Mi hanno rubato le cose, cosa faccio vado alla polizia?” “No, cosa vai dalla Polizia, prima che trova chi è stato…” Vado dal mafioso che mi trova chi mi ha fatto il furto, al controllo del territorio, ci pensa lui». Ultimo, ma non meno importante, il sostegno ricercato in campagna elettorale: «Quando partecipo alle elezioni, per ottenere il sostegno elettorale come faccio? Vado dal mafioso di turno che mi garantisce tutto un cospicuo pacchetto di voti».

La condanna de La Svolta. «C’è stata una sentenza di condanna non è perché i giudici volevano per forza condannarli – dice Lari – Ma perché c’erano questi elementi concreti che dimostravano questa esistenza di questo assoggettamento, di questa omertà. Per cui a me fa sorridere quando dicono che queste condanne sono state fatte sulla base di principi, così, astratti. Quando dicono che non c’è la concretezza dell’intimidazione, che non c’è l’assoggettamento, che non c’è l’omertà. Assoggettamento e omertà non significa che quando io esco di casa, a Ventimiglia, ho paura che mi sparino. Sarebbe una cosa anacronistica. Ma è questo: è il potere diffuso, è il fatto che non vado a denunciare, è il fatto che cerco la protezione. E quindi giustamente sono stati condannati sia in primo grado che in secondo grado e in via anche definitiva. E quindi io credo che anche se questi fatti sono un po’ datati, il mio appello di rendere testimonianza avesse un fondamento basato su fatti concreti. E ha un aspetto su basi concrete perché io sono quattro anni che sono procuratore della Repubblica di Imperia e per questi fatti denunce non ne ho ancora vista neanche una».

«E allora mettiamo insieme le cose – conclude Lari – Abbiamo fatto le indagini e abbiamo visto decine di casi; questi casi significano un radicamento, cioè una cosa che ormai si capisce che è consolidata. Ho fatto degli esempi per far vedere che è a 360 gradi: in tutti i settori c’è la possibilità di ottenere un favore e una raccomandazione. Le estorsioni, le minacce erano ovunque. Siamo la provincia dove abbiamo più incendi di tutto il nord Italia. Io denunce non ne ho mai viste. Quando feci questo appello a Ventimiglia, c’erano appena stati altri episodi intimidatori che erano stati fatti a degli altri, attentati incendiari, ma non abbiamo visto nessuna denuncia. Le denunce erano assolutamente generiche e nessuno aveva la minima idea di perché avesse subito questi fatti». «Stiamo parlando di cose avvenute pochi mesi fa: mi bruciano un capannone, mi bruciano un camion, e io non ho la minima idea… Insomma, diciamo che forse forse qualche perplessità dall’inquirente mio ci sta. Poi magari sono io che sono un inquirente, però diciamo che la lettura generale di questi fatti porta a fare queste conclusioni: tu non lo vuoi denunciare perché hai paura. Per questo, credo che fosse più che attuale il mio invito a denunciare».

Killer dalla Calabria, ospitati a Ventimiglia. «Tenete presente che poi in quel processo, lo dico per fatto di cronaca, emerse anche, per dare l’idea di un fatto concreto che mi ha colpito in maniera particolare, che erano stati ospitati qui a Ventimiglia i killer per vendicarsi di un omicidio avvenuto a Gioia Tauro – ha raccontato Lari – Questo, in una visione un po’ analitica, è devastante: cioè il pensiero che, anche qua, si ragioni in questo modo e cioè che c’è stato un omicidio, l’autore dell’omicidio è scappato al nord perché in Calabria lo avrebbero fatto fuori, ti giungono voci che probabilmente si è riparato nella zona di Mentone, nella Costa Azzurra, e a questo punto che si fa? Mandiamo i killer a Ventimiglia, dove hanno una base e li appoggiano e da qui si mettono a ricercare questa persona per farla fuori. E qui trovano chi li ospita, chi procura loro le armi: è successo a Ventimiglia. Qui stiamo proprio parlando della delinquenza a livello più efferato, dove io mi attivo anche per rendermi partecipe di un possibile omicidio, di una vendetta mafiosa».

L’ex procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, è intervenuto inquadrando, dal punto di vista storico, la mafia in generale e la questione dei beni confiscati in particolare.
Caselli ha ricordato il 3 settembre 1982, quando a Palermo, in via Carini «veniva compiuta una delle stragi di mafia più ricordate: colpiva il generale, in quel momento prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’autista accompagnatore Domenico Russo: una strage di mafia tra le più efferate, le più terribili, ma nello stesso tempo nella tragedia, come dire, un regalo, lo dico con fatica, una parola che può sembrare fuori luogo: un regalo di straordinaria importanza per quanto riguarda la tenuta democratica del nostro Stato, la capacità del nostro Stato di rispondere con maggiore incisività alla mafia». «Una svolta – ha detto Caselli – epocale su due piani, sul piano del diritto penale e su quello amministrativo. Nel 1982 il nostro paese che aveva dormito per decenni e decenni, di colpo, per lo sdegno e la rabbia conseguenti a questa tragedia, si sveglia e approva finalmente una legge, la Rognoni-La Torre, che segna finalmente una svolta formidabile sul versante  dell’antimafia». Sul piano del processo penale: il 416bis. «La mafia esiste nel nostro paese da qualcosa come due secoli, ma per trovarla vietata e punita nel codice penale dobbiamo arrivare all’articolo 416bis targato 1982 – ha detto Caselli – E’ soltanto dopo l’omicidio di Dalla Chiesa che la mafia ottiene un riconoscimento di esistenza all’interno del nostro codice penale. Prima non esisteva, semmai era una mentalità, una cattiva abitudine di qualcuno: non era una potenza capace di prevaricare tutto e tutti».

Ricordata anche la creazione da parte del magistrato Rocco Chinnici del pool antimafia di cui facevano parte Falcone e Borsellino: «Un gruppo organizzato che mette in campo un metodo di lavoro che per quei tempi era una vera e propria rivoluzione», ha ricordato l’ex procuratore di Palermo.

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