Il messaggio

Strage di via D’Amelio, a Ventimiglia la giornata in memoria delle vittime. Procuratore Lari: «Abbiate il coraggio di denunciare»

C'è meno omertà in Sicilia: «Qui la collaborazione dei cittadini non è piena»

Ventimiglia. «Questo è il mio messaggio, il messaggio che voglio mandare. Questo è il ricordo che dobbiamo tributare a Paolo Borsellino: dobbiamo trovare il coraggio. Dobbiamo trovare il coraggio di fare un passo, di collaborare con la giustizia. So bene che non è facile: spesso non si ha fiducia nella magistratura e anche noi abbiamo la nostra responsabilità. La magistratura non è esente da critiche, da pecche, faccio ammenda. Io cerco di fare il massimo e non è semplice riuscire a convincere tutti che si devono fidare di noi. Ma dovete avere fiducia e fare uno sforzo. Capisco che a volte avvengono dei fatti pesanti: uno subisce una minaccia, subisce un’usura, gli viene bruciata una macchina, gli viene bruciato un negozio. Solo facendo una denuncia in questo caso si può trovare il modo di mettere un freno a questi fatti. Credo che il modo migliore di ricordarlo (Paolo Borsellino, ndr) sia quello di comportarci in questo modo». Lo ha detto, al termine di un lungo discorso sulla mafia, il procuratore capo di Imperia Alberto Lari che ieri sera, presso il chiostro di Sant’Agostino, a Ventimiglia, ha partecipato a “Via d’Amelio, semi di legalità e giustizia”: l’evento organizzato dal coordinamento di Libera Imperia per ricordare il 19 luglio del 1992, giornata in memoria delle vittime della strage di via D’Amelio.

Nel suo lungo intervento, il procuratore ha evidenziato una differenza sostanziale tra i territorio siciliani, dove ha lavorato come giovane magistrato, prendendo le redini proprio di Paolo Borsellino, e l’omertà della provincia di Imperia. Mentre quattro giovani donne, in Sicilia, hanno avuto il coraggio di denunciare i vertici della mafia più pericolosa al mondo, a Ventimiglia le denunce restano un miraggio. «Qua non c’è piena collaborazione dei cittadini», ha sottolineato Lari.

«Dal 1992 il mondo che riguarda la mafia è cambiato in maniera radicale – ha esordito il procuratore capo -. Credo che forse sia un po’ il mio destino: io sono arrivato a Marsala nel 1992: ero un giovane magistrato e il tribunale di Marsala era quello dove era stato Paolo Borsellino fino a pochi mesi prima. Era procuratore della Repubblica di Marsala, quindi si viveva ancora sulla pelle di coloro che lavoravano in tribunale lo sconcerto e la rabbia per quello che era successo. Ma c’era da onorare il suo ricordo e c’erano da portare avanti i processi che lui aveva istruito. Ricordo bene che all’epoca a Marsala c’erano in corso due processi alla mafia: c’era un processo che riguardava la mafia di Castelvetrano (Trapani), che poi la storia dirà che è la mafia più potente dopo i Corleonesi. Era la mafia di Messina Denaro. Oggi Matteo Messina Denaro è il principale latitante che c’è forse al mondo, all’epoca il processo era nei confronti del padre, Francesco. Era un processo, lo devo dire, che era stato istruito dalla Procura di Marsala e che aveva come testimone principale una donna: Giacoma Filippello».

E sono proprio le donne, nel racconto di Alberto Lari, le vere protagoniste: loro e il loro coraggio di denunciare.

Il retroscena. «In quel processo c’era anche un dato secondo me significativo – ricorda il procuratore capo di Imperia – Cioè che si parlava già che Borsellino lo volevano ammazzare in precedenza. Avevano trovato anche chi era disposto a farlo. I pentiti raccontano che questo killer era stato sondato nella sua affidabilità, portandolo in un campo e pestandolo a sangue, questo è quello che fa la mafia, per essere sicuri che anche se le indagini avessero scoperto che era stato lui, non avrebbe parlato neanche sotto tortura: questo è come ragiona la mafia».

Altre donne. «Quello di cui vi voglio parlare è l’altro processo che c’era a Marsala, che ho fatto io insieme a due colleghi, ed era il processo alla cosiddetta mafia di Partanna. Inizia nel 1993 e così si chiama perché su 31 imputati, 30 erano residenti a Partanna. Anche questo era stato istruito dalla procura di Marsala e in alcune parti, in prima persona, da Paolo Borsellino. Anche in questo caso i principali testi di accusa erano tre donne: Rita Atria, Piera Aiello, Rosalba Triolo. Erano testimoni di giustizia e non collaboratori perché non c’entravano nulla con la mafia, ma erano vissute in un ambiente mafioso e quindi avevano visto all’interno della famiglia ciò che la mafia faceva», spiega Lari.

Rita Adria. Il procuratore si è soffermato sulla figura della giovane donna che diede il via alle indagini. «Rita Atria aveva il padre che era mafioso, il fratello che era mafioso – dice – Venne ammazzato il padre, venne ammazzato il fratello. Prima di venire ammazzato il fratello le raccontò tante cose: le raccontò che aveva scoperto chi aveva ammazzato suo padre e quindi nell’ottica mafiosa avrebbe dovuto vendicare la morte del padre ammazzandolo. In realtà provò due volte ad ammazzare questa persona, non vi riuscì, e venne a sua volta ammazzato. Questa situazione fece esplodere Rita Adria che non ne poteva più di sopportare la vita mafiosa e quindi decide di collaborare e lo fece perché trovò in Paolo Borsellino la persona che era di sua fiducia, la persona che le consentiva di trovare il coraggio di denunciare una situazione del genere».

«Tenete presente – ha aggiunto – Che la mafia di Partanna è stata ritenuta un mandamento della mafia di Castelvetrano e quindi anche in questo caso era una costola mafiosa che faceva riferimento sempre alla famiglia Messina Denaro: quindi stiamo parlando della mafia più pericolosa in assoluto. Ma anche di questo non si preoccupò, ne parlò lo stesso.
All’epoca non era semplice fare questo processo, perché comunque la mafia a Castelvetrano non esisteva; la mafia a Partanna non esisteva.
Ci siamo dovuti confrontare con questa tesi, perché mai una sentenza aveva detto che in quel singolo paese esisteva la mafia. E quindi le difese puntavano sul fatto: ma a costa state dietro, a una ragazza di 18 anni? Ma come fate a condannare delle stimate persone sulla base di testimonianze rese da una ragazza, una mezza pazza? E vi assicuro che non è facile, visto che poi non ci sono tutti questi riscontri e questo testimone riferisce per sentito dire. Oggi qualcuno direbbe che forse abbiamo sbagliato a condannarli. Io dico che abbiamo fatto bene: la sentenza è diventata definitiva, quindi vuol dire che la Cassazione ci ha dato ragione».

Il coraggio delle donne ricordato nella sentenza. “Va sicuramente apprezzato il coraggio dimostrato nel prendere la decisione di collaborare con la giustizia, importando questa loro scelta la messa in pericolo permanente della loro vita, l’allontanamento definitivo dal paese in cui hanno sempre coltivato i loro affetti e la loro amicizia. Rita Atria per questa sua iniziativa si inimicò definitivamente la madre. E’ stata una decisione indubbiamente coraggiosa, pienamente libera, non è stata motivata da ragioni di opportunità ove si consideri che non risulta mai implicata in alcuno degli affari illeciti”, si legge in uno stralcio delle carte processuali.

«Perché vi ho raccontato questa storia di Rita Atria? Perché una settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita Atria si è suicidata lanciandosi dal settimo piano del palazzo di Roma dove era sotto protezione – ha detto ancora Lari – Non poteva resistere a una situazione del genere: aver parlato di mafiosi, essersi esposta così, e aver perso la sua figura di riferimento».

Cosa è cambiato. «Eravamo nel 1993, e voglio evidenziarvi di quante cose sono cambiate dal 1993 – spiega – All’epoca si doveva ancora dimostrare che esiste la mafia in Sicilia, a Castelvetrano, a Mazzara del Vallo, a Campobello di Mazzara. E piano piano tutti i tasselli si sono incastrati: in tutti i paesi è stato dimostrato che giudiziariamente esiste la mafia e questo lo dobbiamo anche al tributo di questi uomini, perché la reazione dello Stato fu fermissima. Dobbiamo dare atto che lo Stato, le forze dell’ordine, la magistratura, dopo la strage di via D’Amelio sono partite e sono state fatte indagini a tappeto.
Ne è passata acqua sotto i ponti: si è passati da quando ero giù e non esisteva la mafia in Sicilia, a dire che la mafia non è solo in Sicilia ma è anche al nord: in Piemonte, in Lombardia e poi che la mafia è anche in Liguria. E poi siamo arrivati a un punto di dire che la mafia è anche qua. Che è a Genova, a Lavagna e anche a Ventimiglia. Ci abbiamo messo dieci anni. Ho iniziato le indagini nel 2010, è stato faticoso, un terreno processuale tortuoso. E solamente tra il 2020 e il 2021 sono arrivate le sentenze definitive, perché comunque queste sono situazioni di difficile accertamento, le resistenze sono veramente forti. C’è voluta una cocciutaggine non solo mia, ma di tutti quelli che se ne sono occupati. Più volte abbiamo pensato di fermarci dopo mille bastonate che ricevevamo, processuali, ma siamo andati avanti e poi il tempo ci ha dato ragione: esiste la ‘Ndrangheta anche a Ventimiglia, esiste a Genova e a Lavagna».

«Devo però mettere un accento sul fatto della collaborazione dei cittadini, permettermelo – conclude il procuratore – Non c’è collaborazione piena dei cittadini qua. Quattro donne (in Sicilia, ndr), hanno trovato il coraggio di denunciare i vertici della mafia, persone responsabili di centinaia di omicidi. E qui non troviamo lo stesso coraggio di denunciare coloro che sono i mafiosi presenti su questo territorio».

 

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