Il caso

Imperia, il riscatto dei “furbetti” del cartellino nelle motivazioni della sentenza: ecco perchè il giudice li ha assolti

325 pagine che restituiscono il ritratto di lavoratori indefessi

Imperia. Sono racchiuse in 325 pagine le motivazioni che hanno portato il gup del tribunale di Imperia Paolo Luppi ad assolvere Luigi Angeloni, Maurizio Di Fazio, Rosella Fazio, Patrizia Lanzoni, Loretta Marchi, Luisa Mele, Sergio Morabito, Paolo Righetto, Alberto Muraglia, Roberta Peluffo «da tutte le violazioni loro ascritte perché il fatto non sussiste».

Il 20 gennaio scorso, il giudice aveva assolto tutti e dieci imputati che avevano scelto il rito abbreviato nell’ambito del processo che ha portato alla sbarra 42 cosiddetti “Furbetti del cartellino”. Una sentenza che aveva scosso l’opinione pubblica, dopo le immagini trasmesse da tutti i tg nazionali (e non solo) del vigile che timbrava il cartellino in slip, e dei dipendenti ripresi dalle telecamere mentre si assentavano dal luogo di lavoro. Solo oggi, con la pubblicazione delle motivazioni che hanno portato Luppi ad assolvere i dieci imputati finiti a processo con l’accusa di truffa ai danni dello Stato e utilizzo indebito del badge marcatempo contestati a 42 dipendenti del Comune di Sanremo. Sempre a gennaio, sedici di loro erano stati rinviati a giudizio, mentre altri sedici avevano patteggiato.

Una vicenda processuale, questa, nata da un’indagine condotta dalla Guardia di Finanza di Sanremo che aveva indagato inizialmente 270 persone e si era conclusa con l’emissione di un’ordinanza cautelare con la quale erano stati disposti gli arresti domiciliari nei confronti di 32 persone e misure non restrittive (obbligo di presentazione ala PG) nei riguardi di altre 6.

Ma le accuse, secondo il gup, almeno per i dieci imputati che avevano scelto il rito abbreviato, sono da considerarsi infondate. Anzi, quello che ne esce, leggendo le centinaia di pagine delle motivazioni, è il ritratto di persone dedite al lavoro, dipendenti che tornavano in ufficio anche quando non era loro richiesto, che non chiedevano neanche il pagamento degli straordinari al Comune, tanto da lavorare, come sottolineato da Luppi, in modo totalmente gratuito.

«Nell’anticipare, sin da ora, come l’accusa nei confronti di tutti gli imputati sia stata ritenuta infondata, questo giudice, in modo non formale, intende dare atto di come il rappresentante del PM abbia, comunque, sostenuto l’accusa in modo accurato, serio e intelligente», scrive il gup, che però poi sottolinea come «le diverse conclusioni alle quali si è pervenuti sono state determinate, da un lato, da una diversa opinione sull’interpretazione di atti giuridici di carattere amministrativo su cui una parte delle contestazioni si fondava, dall’altro su una, parimenti divergente, impostazione circa l’attribuzione dell’onere della prova in alcune, importanti circostanze».

E ancora: «A ciò si aggiunge il fatto che la scelta di un’indagine a tappeto così imponente e il tipo di condotte che dovevano essere provate avrebbe forse richiesto, se disponibili, l’impiego di maggiori risorse umane (a livello di personale di PG incaricato delle attività investigative). Si è, in modo assolutamente legittimo, cercato di ovviare a dette carenze cercando di orientare il giudicante a ritenere provati fatti storici (non percepiti direttamente dagli investigatori) in base a prove logiche, che, tuttavia, si sono rivelate, ad avviso di questo giudice, inidonee alla dimostrazione degli addebiti».

A rendere difficoltose le indagini, sarebbe stata la carenza di uomini tra le file della Gdf. Lo scrive, nero su bianco, il giudice: «Nella stragrande maggioranza dei casi, per carenze investigative non addebitabili al PM, ma verosimilmente dovute a penuria di risorse umane (dato l’esiguo numero di operatori di PG disponibili), il pedinamento dei dipendenti è avvenuto solo in alcuni casi e, di regola, in tali casi quei soggetti che sono stati sorpresi a svolgere attività extra lavorative mentre avevano attestato “uscite per servizio” con i vecchi sistemi, a fronte del quadro probatorio a loro sfavorevole, hanno  patteggiato la pena. Negli altri casi, pur in mancanza di prove su dove si trovasse e cosa stesse facendo il dipendente “uscito per servizio”, da parte della Pubblica Accusa si è presunto che egli stesse facendo altro rispetto ai compiti inerenti l’attività lavorativa». E ancora: «Questo giudice ritiene fosse onere della pubblica accusa fornire la rigorosa prova che il dipendente avesse falsamente attestato di essere uscito per ragioni di servizio. Conseguentemente, anche in quei casi in cui, comprensibilmente (per difficoltà o impossibilità oggettive o per carenza di mezzi economici che consentissero laboriose indagini difensive sul punto), non si sia accertato in cosa fossero consistite le ragioni di servizio per le quali era intervenuta l’uscita, questo Giudice ha ritenuto non provata l’accusa, sulla sola base del fatto che l’attestazione fosse avvenuta con metodi diversi da quelli (che il PM riteneva) prescritti».

In più occasioni, Luppi parla di un quadro probatorio insufficiente, «limitato e inadeguato», che si è scontrato, invece, con una difesa attenta e precisa, che ha smontato, punto per punto, tutte le accuse.

La ricostruzione del giudice sul lavoro dei dipendenti pubblici è ben diversa dal quadro accusatorio, che li aveva trasformati nell’emblema dell’assenteismo. Tra i vari passaggi, si legge, ad esempio che uno degli imputati, Roberta Paluffo, «dal punto di vista delle qualità professionali la Dottoressa Peluffo (funzionario responsabile del servizio appalti), alla luce delle indagini difensive, svolte interpellando i dirigenti del suo settore e quelli di altri, è risultata essere un funzionario efficiente, dedito al lavoro e particolarmente competente». Le immagini utilizzate dalle indagini, che la ritraggono mentre rientra il pomeriggio nel palazzo comunale con abiti diversi rispetto a quelli che indossava la mattina, si riferiscono a giorni in cui l’imputata non aveva obbligo di rientro «con conseguente esclusione di ogni retribuzione per lavoro straordinario».

E ancora. «Il fatto che la Peluffo in tali occasioni indossi capi d’abbigliamento più comodi rispetto a quelli della mattina si spiegherebbe col fatto che l’imputata, la quale spesso andava al lavoro anche in quei pomeriggi in cui non ne aveva obbligo, si sia abbigliata più comodamente presso la palazzina Vicari (che in seguito a recente ristrutturazione presentava bagni nuovi, e soprattutto più puliti rispetto a quelli in dotazione al palazzo Bellevue, aperti al pubblico e a causa di ciò in pessime condizioni igieniche ogni fine mattinata): il che si spiega in quanto nei pomeriggi dei giorni senza obbligo di rientro non erano previsti nè il ricevimento del pubblico nè incontri particolari che imponessero o consigliassero un abbigliamento più formale. In ogni caso, lo si ripete ancora, a fronte di accuse supportate da indizi così lievi appaiono sufficienti ad annullarne il valore probatorio le affermazioni difensive e le spiegazioni dell’imputata, anche 

Il caso più emblematico è quello di Alberto Muraglia, divenuto noto alle cronache come “il vigile in mutande” per le immagini diffuse dai media che lo vedevano timbrare il badge marcatempo con indosso solo gli slip. «Per ben comprendere la situazione che ha visto accusa e difesa fronteggiarsi sul punto occorre evidenziare che, pacificamente, il Muraglia (che, di regola, doveva prendere servizio e timbrare il badge alle ore 6,00) apriva il mercato annonario una ventina di minuti prima, al fine di consentire agli operatori (con i quali aveva raggiunto un accordo in tal senso) di entrare, approntare i banchi e sistemare sugli stessi la merce – scrive il giudice -. Va sottolineato che, pertanto, tali attività di sua competenza venivano svolte dal Muraglia prima delle ore 6,00 (mentre solo a partire da quell’ora – di formale inizio del servizio – egli maturava il diritto alla retribuzione)».
Insomma, l’ex vigile non solo svolgeva appieno il proprio dovere, ma era presente sul mercato, come comprovato da testimonianze raccolte in sede di indagini difensive, «a partire dalle 5,30 – 5,35». Dunque «iniziava a lavorare (senza essere per questo retribuito!) 25 – 30 minuti prima dell’effettiva presa di servizio attestata con la timbratura».

 

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