La ricerca

Tuffo nel passato: la storia di 127 imperiesi ricoverati in manicomio

Quando le "cittadelle della follia" mietevano vittime. Viaggio nella psichiatria tra '800 e '900

manicomio

Imperia. A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, 127 imperiesi vennero ricoverati negli ospedali psichiatrici. Dati, questi, estrapolati grazie al lavoro della Direzione generale degli archivi del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo che, con il progetto “Carte da Legare”, ha creato un vero e proprio archivio della psichiatria in Italia.

“Gli ospedali psichiatrici hanno ospitato e prodotto sofferenza”, si legge nell’introduzione al progetto, “Essa si è depositata nella memoria degli uomini e delle donne che ci sono passati attraverso ma anche in quella materiale: strutture architettoniche, archivi, biblioteche, collezioni, strumentari, suppellettili sanitarie. Tutto parla della particolare comunità di persone che ha popolato le “cittadelle della follia”, i ricoverati reclusi, innanzitutto, i medici e gli infermieri”.

E allora conosciamoli, anche solo sbirciando nelle loro cartelle cliniche (epurate dai dati personali nel rispetto della normativa sulla privacy), questi “malati” costretti contro la loro volontà ad entrare in un manicomio, spesso per non uscirne più.

Ottantaquattro sono uomini (il 66%) e 43 donne (il 34%). Tra i pazienti di sesso maschile, poco meno del 25% sono soldati, giovani tra i 20 e i 30 anni ricoverati tra il 1917 e il 1921 per malattie nervose dovute alla traumatica esperienza della guerra: dalla trincea al manicomio, per questi soldati, il passo è stato breve.
Ma la guerra non causò malattie sono negli uomini: A.C., si legge, “divenne pazza quando il fidanzato andò militare e guarì al suo ritorno”. Durante il suo ricovero la diagnosi fu “lipemania”, ovvero “melanconia”.

Anche se nella maggioranza dei casi, non si conosce il destino dei nostri imperiesi ricoverati all’ospedale neuropsichiatrico per la provincia di Cuneo in Racconigi (è in questo luogo che si concentra la gran parte dei ricoveri), sappiamo per certo che 32 di loro non tornarono più a casa perché nell’ospedale trovarono la morte, spesso per causa ignota. In una scheda, invece, si legge “morte per avvelenamento”: è il caso della 35enne O.G., orfana di madre, nubile e senza figli, la donna venne ricoverata nell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma il 20 dicembre del 1900. Il ricovero, coatto, durò fino al 5 agosto dell’anno successivo, quando O.G. morì avvelenata. La sua colpa? Era affetta da “melanconia” e “cefalgia” e aveva “idee deliranti”.

E’ proprio cercando nelle cartelle cliniche delle donne ricoverate che si trovano le diagnosi più impensate. Come nel caso della 22enne A.B. il cui ricovero, di tipo coatto, venne disposto dal prefetto: “amore per una persona non libera”, “isterismo. Questa l’anamnesi con nesso causale scritta dal medico, “fa atti scandalosi”. Diagnosi: “mania erotica”.

L’amore, spesso non corrisposto o “illecito”, fu alla base di diversi ricoveri al femminile: A.G., una cucitrice nubile e senza figli, finì in ospedale per una “passione amorosa contrariata” che la portò a sviluppare una “mania furiosa con allucinazioni”. Alla base della “pazzia” di M.L., che subì un ricovero coatto per aver più volte minacciato di uccidere il marito e i figli, e per “alzarsi le vesti”, sembrerebbe esserci un “illecito amore non corrisposto”.

Non andò meglio ad altre donne, ricoverate perché soggette a “temperamento nervoso” ereditato dalla madre. Siamo negli anni in cui ad andare di moda è il pensiero di Cesare Lombroso, medico, antropologo e giurista italiano considerato uno dei padri della criminologia. Oggi la sua dottrina è considerata una “pseudoscienza”, ma leggendo quanto contenuto nelle cartelle cliniche di questi imperiesi, si capisce che all’epoca non era per nulla così. Anzi. E di fatti si restavano anni e anni in manicomio quando si era affetti da epilessia. E’ questo il caso di L.B. ricoverata prima nell’ospizio provinciale degli esposti di Oneglia, poi nel manicomio di Porto Maurizio e infine traslocata a Racconigi per “mancanza di posto”. “L’epilessia guasta il carattere, producendo indebolimento mentale e stupore”, si legge nei testi medico-scientifici dell’Ottocento. “L’anestesia che gli epilettici hanno nei loro sensi la portano anche nel cuore”, scriveva proprio Lombroso, che arrivò ad elaborare il concetto di “pazzia epilettica” che, secondo le sue teorie, costituiva il denominatore comune di ogni personalità criminale.

Un’altra causa di ricovero era dovuta alle “manie religiose”, come nel caso della monaca B.D., ricoverata per “demenza secondaria e monomania religiosa con allucinazioni uditive e visive” o di M.E. che, in seguito allo “spavento per la predica di un missionario” “vaga per il paese ingiuriando e minacciando chi incontra”.

Queste sono solo alcune storie di vita realmente vissuta relative a 127 ricoveri in ospedali psichiatrici. In molti casi, però, si fa riferimento al manicomio di Porto Maurizio, nel quale molti pazienti erano stati precedentemente ricoverati oppure dal quale erano stati trasferiti per mancanza di posto. Questo manicomio, chiuso nella nostra provincia così come in tutta Italia con la legge 180 del 1978, racconta centinaia di altre “storie” di sofferenza e dolore di un tempo che sembra lontano, ma lontano non è.

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