Amarcord

Luigi Diego Elena racconta il suo Festival di Sanremo che si ascoltava alla radio

Il giorno dopo la mamma le cantava tutte, il papà le strimpellava ed io le bevevo come fossero medicine di spensierata quotidianità

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Sanremo. Il mio Festival della canzone italiana è ancora nell’abito gessato doppiopetto e papillon, camicia con collo inamidato e mocassini bianconeri o a tubino dalla lunghezza midi ispirati a quelli indossati da Marylin Monroe e Audrey Hepburn. Oppure deliziosi skater dress, abiti con grandi gonne a ruota che in generale si fermavano all’altezza del polpaccio senza raggiungere le caviglie.

E c’erano gonne plissè e corpetto legato dietro il collo dal deciso mood pin up, dalle varianti più eleganti con corpetto smanicato da abbinare a collane di perle e versioni in tulle e satin in colori pastello. Correvano nel sonoro delle edizioni fino a quella del 1954. Tutte trasmesse esclusivamente per radio dal Casinò di Sanremo.

Un rito per tutta la famiglia. Mia madre sarta attenta ad ogni mise elegante, ricercata, che poi ridisegnava col gesso su di in carta modello. Mio papà col mandolino e il plettro a seguire note e gorgheggi, tra una scarica e l’altra d’onde medie, dell’eterodina marca Magnadine. Io con l’orecchio teso e la bocca spalancata e immobile. Naturalmente tutto ciò grazie al presentatore Nunzio (nomen omen) Filogamo, che impeccabilmente descriveva testo, cantante, orchestra, orchestranti e maestro direttore concertatore. Canzoni in tema con quel tempo post bellico, poi riprese dai grammofono a manovella di giri trentatré. Il giorno dopo la mamma le cantava tutte, il papà le strimpellava ed io le bevevo come fossero medicine di spensierata quotidianità.

Quel “Miei cari amici vicini e lontani buonasera, buonasera ovunque voi siate!” così celebre, continuava per mesi, in noi che ci sentivamo ancora in quell’atmosfera sanremasca nella carezza del suo eco, che chiedeva ancora diversi bis.

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